Spinta dai venti dell’inflazione, sta prendendo piede la questione salariale, su cui confluiscono sia l’esigenza di tutelare il potere d’acquisto che la radicata opinione secondo cui i salari italiani sono immotivatamente bassi. Quest’ultima narrazione è particolarmente sostenuta dai sindacati, il che è un po’ sorprendente, visto che sono proprio loro gli autori dei Contratti Collettivi che si applicano alla quasi totalità dei lavoratori dipendenti. Infatti il primo dato oggettivo da cui partire è che, secondo i dati Cnel, la copertura contrattuale tutela almeno 12,9 milioni di dipendenti privati più 3,2 milioni di dipendenti pubblici. I contratti cosiddetti pirata riguardano meno del 3% di lavoratori e i lavoratori senza contratto sono, secondo i dati Inps, tra i 500 e 700 mila.
Salari: un confronto fra l’Italia e principali i Paesi europei
Stabilito che ragionare di salari in Italia significa ragionare di Contratti Collettivi Nazionali, vediamone i valori, espressi in Parità di Potere d’Acquisto, confrontati con quelli europei. Eurostat ci dice che la paga oraria media lorda italiana nel 2021 è stata di 15,55 euro contro i 16,9 euro dell’Eurozona, i 19,66 euro della Germania e i 18,01 della Francia. La paga mensile lorda lo stesso anno è stata 2.520 euro in Italia, nell’area Euro 2.825 euro, in Germania 3.349 euro, in Francia 2.895 euro. Quella annua in Italia 34.792 euro, nell’area Euro 38.559 euro, in Germania 44.933 euro, in Francia 37.956 euro.
Secondo Job Pricing, che prende in considerazione i dati Ocse, nel 2020 i salari italiani erano al 25° posto su 36 paesi, pari all’80% della retribuzione media Ocse. I salari sono dunque mediamente bassi, ma vale la pena scomporli per aree di analisi per cercare di capirne le cause.
La differenza fra salari alti e bassi
Innanzitutto, nonostante i luoghi comuni pauperisti la differenza tra salari alti e bassi non è affatto alta. Anzi, è tra le più basse in Europa: i salari bassi, ossia inferiori a 2/3 del salario mediano, sono soltanto il 3,7% del totale, il dato più basso nell’UE; quelli alti, ossia superiori alla mediana di una volta e mezzo sono il 19%, sono invece i più bassi dopo quelli della Germania (18,7%). Il grosso dei salari si distribuisce abbastanza uniformemente in una fascia centrale.
La differenza di salario a seconda dell’istruzione
Allineato a questo dato è quello relativo al differenziale di retribuzione per livello d’istruzione: la differenza di salario tra i livelli d’istruzione più bassi (primaria e/o secondaria inferiore) e più alti (terziaria e superiore) in Italia è tra 27.806 euro annui e 44.104 euro; in Germania rispettivamente 27.005 euro e 68.144 euro; in Francia 28.115 euro e 47.696 euro; nell’area euro 25.518 euro e 51.200 euro. Ancora una volta troviamo che le retribuzioni basse sono più alte della media europea, mentre quelle alte sono più basse. Pare emergere sorprendentemente un quadro in cui i salari medi sono mediamente bassi soprattutto per colpa di quelli alti, mentre quelli più bassi hanno una buona performance.
Le differenze di retribuzione nei vari settori
Importante anche esaminare come cambia il salario a seconda del settore produttivo: escludendo l’agricoltura e i servizi familiari, difficili da pesare perché sconfinano nel lavoro sommerso, i comparti in cui la retribuzione (di fatto) è più bassa sono edilizia (26.482 euro annui) e servizi (28.749 euro). Ma, a parte il comparto finanza/credito, anche i comparti industriali non sono molto più alti: 32.000 euro l’industria di processo e 30.486 euro l’industria manifatturiera (dati Job Pricing).
Il confronto con l’Europa
Molto istruttiva la comparazione con i dati europei: il delta tra la retribuzione nell’industria di processo (normalmente la più alta esclusi i servizi finanziari) e i servizi esclusa la P.A. è del 23,5% in Germania, del 13% in Francia, del 7% in Italia; e del 14,5% nell’area Euro (dati Eurostat). Questo schiacciamento del dato italiano è dovuto essenzialmente a un livello relativamente alto della retribuzione nei servizi (soltanto -8,7% rispetto ad area Euro, -7,5% rispetto alla Francia, -24% rispetto alla Germania) e piuttosto basso per l’industria di processo (-17% con l’area euro, meno 43,8% con la Germania, -14,7% con la Francia).
Il cuneo fiscale-contributivo
Vale anche la pena di soffermarsi sul cosiddetto cuneo fiscale-contributivo, che definisce la retribuzione netta spendibile per i lavoratori. Una recentissima ricerca dell’Università Cattolica ci dice che il cuneo fiscale-contributivo mediamente vale il 46% del costo del lavoro, per cui una retribuzione netta di 23.948 euro in realtà corrisponde ad un reddito lordo di 44.779 euro. Definisco questa cifra, che in realtà è il costo del lavoro per l’azienda, come reddito lordo perché nel cuneo sono presenti imposte a carico del lavoratore (mediamente il 15,3%), contributi a carico del lavoratore (circa il 9%) e a carico del datore (circa il 24%): questi ultimi finanziano per la gran parte la previdenza, che possiamo tutto sommato considerare come una sorta di retribuzione differita, e altre prestazioni di tipo assicurativo: Cassa Integrazione, Indennità di Disoccupazione, Malattia, Maternità, Assegni Familiari, ecc. In sostanza poco meno della metà del redito generato a favore del lavoratore finanzia assicurazioni e previdenza.
Il confronto con l’Europa
Non è una situazione comune: in Germania i contributi pensionistici, tra carico lavoratore e carico impresa, sono del 16%, e ovviamente generano pensioni molto più basse di quelle italiane. Per cui tutti i lavoratori tedeschi si pagano a parte una previdenza integrativa. Non solo: nel cuneo fiscale dei lavoratori tedeschi è compreso anche un 14% che va a finanziare la sanità pubblica; in Italia il lavoratore non la paga, perché è a carico della fiscalità generale.
È opportuno qui notare che per le retribuzioni lorde che non superano i 15.000 euro annui (sono più di 8 milioni), il prelievo fiscale viene fortemente ridotto o annullato grazie a detassazioni e a detrazioni fiscali.
In sostanza il cuneo fiscale al livello delle retribuzioni europee più alte comprime il salario netto medio portandolo al di sotto della media dell’area euro di circa 900 euro annui. Si tratta di una scelta, forse mai esplicitamente dichiarata, per cui viene privilegiata la finalità assicurativo-previdenziale nella retribuzione.
La prevalenza del lavoro scarsamente specializzato
Il peso del cuneo non è sufficiente, tuttavia, a spiegare lo schiacciamento sui valori bassi delle retribuzioni italiane. Un’ altra causa è da ricercarsi in una curva delle professionalità che in Italia tende al piatto, con prevalenza, rispetto ai partner europei, di lavoro scarsamente specializzato: in Italia il profilo più presente è quello delle professioni manuali qualificate, mentre in Germania è quello delle professioni tecniche intermedie, in Francia e nell’area euro le professioni intellettuali e scientifiche. Ovviamente la parametrazione dei salari sulla base di questa scala determina una media retributiva bassa.
La produttività in Italia e in Europa
Ma vi sono anche ragioni intrinseche alla struttura produttiva, in particolare alla produttività non solo del lavoro, ma di tutti i fattori che la determinano. Per un quadro più preciso, vale la pena fare un paio di raffronti tra la performance italiana e quella dei nostri partner europei: il Pil prodotto per ora lavorata in Italia è pari 54,2 euro, contro 60,5 euro dell’area euro, 67,1 euro della Francia e 67,6 euro della Francia. Il Pil pro capite annuo (per addetto) è di 41.995 euro in Italia, 47.133 euro per l’Area Euro, 46.691 euro in Francia e 54.884 euro in Germania. Il che spiega anche le differenze retributive.
Per tirare le somme sui salari italiani
Dobbiamo prendere atto che in Italia la gran maggioranza dei lavoratori è tutelata dai Ccnl, ma che i salari medi contrattuali sono bassi rispetto ai livelli europei, poco diversificati per professione, età e comparto, con le fasce basse più allineate ai livelli europei e quelle alte molto meno allineate. Un sistema salariale un po’ povero e propenso all’ egualitarismo, più inteso a finanziare le assicurazioni sociali che la capacità di spesa, con difficoltà a stimolare la produttività (e a beneficiarne) a causa di un modello di contrattazione collettiva molto accentrato e imperniato sulle fasce più deboli.
Il fascino della nazionalizzazione del salario
Tuttavia, il nesso strutturale tra produttività e retribuzione è visto con molto fastidio da un po’ di sindacalisti, evidentemente convinti che i livelli salariali li debba decidere la politica e non il mercato: stiamo vedendo che proprio in questi giorni di salario il sindacato non discute con le imprese ma con il Governo, e gli aumenti che rivendica non sono in relazione ad una contrattazione sulla ripartizione degli utili ma a interventi fiscali e parafiscali. Un vecchio retaggio culturale: se col padrone non la si sfanga ci si rivolge a Mamma Stato. D’altra parte, se il sindacato sta subendo il fascino della nazionalizzazione del salario, la Confindustria non riesce a far meglio che allinearsi a queste rivendicazioni. Evidentemente sindacati e imprese non sono oggi in condizioni di mettere in moto una grande campagna contrattuale attraverso uno scambio tra salario e produttività per stimolare la crescita.
Ma se la definizione del salario diventa oggetto di negoziato tra sindacato e autorità politica-fiscale, il sistema di relazioni industriali cambia radicalmente di segno e tutto ciò che è contropartita tra lavoro e risultati, con quel che comporta in termini di partecipazione e responsabilità, cogestione, scambio tra prestazione e retribuzione scompare nelle tenebre di un salario statale. Proseguendo su questa strada, il sindacato rischia di indebolire fortemente le proprie radici e il proprio futuro.