Si è tenuto a Roma la scorsa settimana presso la sede di Sace S.p.A. il consueto appuntamento dell’Osservatorio Congiunturale del Gruppo Economisti d’Impresa: unanimi le conclusioni, la ripresa non c’è e pochissimi sono gli elementi che ne fanno presagire la concretizzazione.
L’industria arranca e tutti i comparti denunciano un protrarsi della crisi senza precedenti per intensità e durata. La tenuta del sistema industriale nel suo complesso comincia ad essere messa a dura prova. Interi comparti si stanno riorganizzando non solo puntando su mercati sempre più lontani per collocare i propri prodotti ma anche modificando profondamente i cicli produttivi, l’allocazione e la dislocazione delle fasi produttive, il modo di produzione. Ciò che ci si attende per gli anni a venire non ha più solo a che fare con il far fronte ad una crisi congiunturale ma con una vera e propria trasformazione del tessuto produttivo che, dovendo affrontare la più lunga fase di recessione dal dopoguerra ad oggi, deve ripensarsi e riorganizzarsi.
I settori più a valle e più esposti alla domanda interna, come gli elettrodomestici, si confrontano con una domanda che è tornata ai livelli di 25 anni fa in tutti i paesi periferici dell’Europa e con una domanda dei paesi “core Europe” che non è così forte da poter bilanciare la caduta. Di fronte a queste cifre e ad un modello di consumo che sta cambiando radicalmente, l’industria non può più dilazionare un radicale ripensamento delle strategie produttive. Tengono, e non è un caso, solo i comparti tecnologicamente più avanzati, come i “piani cottura”.
Soffrono tutti i comparti, dalla chimica, all’elettronica, alla siderurgia, alle telecomunicazioni, inedito storico, e alla più nota edilizia, con consumi di cemento ormai tornati ai livelli di 50 anni fa.
Le contrazioni della prima parte dell’anno continuano a mostrare flessioni rilevanti, dovute in parte anche al rallentamento del mercato tedesco, uno dei nostri principali e tradizionali mercati di sbocco anche come triangolazione di merci dirette oltreoceano. Cominciano a soffrire anche le nicchie di mercato che fino al 2012 avevano mostrato maggiore tenuta a testimonianza che il perdurare della crisi travolge sia settori tradizionalmente aciclici, alimentari e telecomunicazioni che calano in termini reali, sia nella componente consumer sia in quella business, sia nicchie di eccellenza che accusano l’arretramento dei mercati europei e seppure in misura assai minore un qualche rallentamento del commercio mondiale. Non meno preoccupante appare il consumo di energia elettrica, tradizionale indicatore che anticipa l’andamento del ciclo economico, che continua a fare registrare una marcata contrazione nei primi 5 mesi dell’anno e anche nei primi giorni di giugno, in netto peggioramento anche rispetto al 2012. Stesso andamento registra il numero di fallimenti, in accelerazione rispetto al 2012, e ancor più la liquidazione di imprese in bonis che scelgono di sottrarsi ad una sfida che ritengono dagli esiti troppo incerti.
Alcuni comparti mostrano tuttavia una tenuta degli investimenti in prodotti ed innovazione, necessari a rimanere sui mercati internazionali lontani, in particolare Far East e più vicini ad elevata capacità di spesa, come per esempio il Medio Oriente.
Tuttavia la crisi del mercato domestico, italiano in primis, ma anche europeo, impone un ripensamento di tutta la strategia produttiva e commerciale. I luoghi fisici di produzione perdono di importanza, fatta eccezione per la scala e per la vicinanza ad un bacino ampio di consumatori, la strategia di marchio va verso l’agglomerazione e l’identificazione di un marchio unico, la qualità diventa requisito imprescindibile e non distintivo. Salvaguardare la presenza delle filiere a livello europeo significa affrontare la crisi per quello che è: una crisi di domanda.
Riaccendere la domanda europea è allora l’unica arma per salvaguardare anche le produzioni a maggiore contenuto tecnologico. Se non si agisce con determinazione e rapidamente si rischia non solo di perdere le produzioni più standardizzate, ma anche di depauperare la possibilità delle imprese di salvaguardare le proprie produzioni di eccellenza tecnologica e quelle maggiormente competitive sui mercati internazionali. Tendenza comune a molti settori, soprattutto a quelli che più sono concentrati sulla domanda interna ed europea.
Se, fino a 6 mesi fa, gli economisti d’impresa erano concordi nell’indicare nell’export la via di uscita dalla crisi, oggi pur essendolo ancora, sottolineano come la mancanza di crescita del Vecchio Continente cominci a penalizzare non soltanto settori e produzioni più tradizionali e più domestici ma incida negativamente anche sulla capacità di finanziare quegli investimenti necessari in innovazione di prodotto, organizzativa e di governance, necessari a competere sui mercati esteri. Non affrontare il problema domestico può finire con il danneggiare anche le esportazioni.
Alessandra Lanza, Presidente del Gruppo Economisti di Impresa e Responsabile delle Strategie Industriali e Territoriali di Prometeia sottolinea “siamo ormai giunti ad una svolta critica per l’industria italiana, momento in cui bisogna decidere inderogabilmente se si desidera continuare a giocare la partita industriale, agendo immediatamente per frenare la crisi di domanda, o si ci si accontenti di giocare un ruolo sempre più marginale nelle filiere globali. Far ripartire la domanda è una conditio sine qua non per potersi poi concentrare su quegli investimenti che tanto sono necessari per colmare svariati anni di ritardo tecnologico. La distanza con i grandi paesi industrializzati si sta rapidamente ampliando, si pensi al recupero di competitività operato dagli Stati Uniti con lo shale gas ed il fracking, e la nuova rivoluzione tecnologica, digitale e del 3D manufacturing, che solo fino ad un anno fa sembrava futuribile, oggi comincia a diventare realtà. E’ una rivoluzione che sembra fatta su misura per un paese che non può contare sulle economie di scala come l’Italia, sia per struttura territoriale e demografica, sia per composizione del tessuto industriale, e che ignorare può significare perdere per sempre il primato industriale che nonostante condizioni così avverse in molte produzioni è ancora oggi, forse per poco, una realtà.”