“L’esito del referendum inglese rafforza la sensazione che si stanno accumulando sulla testa dell’ Europa, eventi sgradevoli e carichi di conseguenze gravi per tutti i cittadini, che non si riesce per ora a fermare. Possiamo farlo, ma ci vuole un nuovo impegno dei governi e delle classi dirigenti per dare un nuovo verso agli avvenimenti”. Fabrizio Saccomanni, già direttore generale della Banca d’Italia e ministro dell’economia del Governo Letta, è dispiaciuto della direzione che l’Europa sta prendendo. E’ preoccupato per la scarsa volontà di reazione che vede nei vari paesi. Ma non è pessimista. Il modo per consolidare i vantaggi portati dalla UE c’è. Ci vuole lucidità e coraggio per attuarlo. Ecco la sua intervista a FIRSTonline.
I mercati finanziari hanno vissuto venerdì una giornata nera. E’ l’inizio di una nuova grave crisi internazionale?
“Le reazioni delle borse e dei cambi erano state previste e sono stati approntati gli strumenti monetari per farvi fronte. Si tratta di una reazione emotiva che da un lato reagisce all’incertezza che il Referendum inglese, peraltro di esito inatteso, diffonde sui mercati, e dall’altro lascia un ampio varco di indeterminatezza sul futuro possibile di tutta la costruzione europea. Se si diffonderanno presso gli investitori dubbi sul futuro dell’Euro e dell’intera Europa, allora è ovvio che pochi vorranno prendere posizioni nella nostra valuta o fare investimenti nei nostri paesi”.
Molti operatori pensano che le conseguenze più gravi nel breve termine siano per la Gran Bretagna.
“La Gran Bretagna è un paese che ha un disavanzo della bilancia commerciale robusto che viene compensato dagli introiti di capitali che arrivano da tutto il mondo e che vengono gestiti dalle banche della City. La svalutazione della sterlina quindi non potrà dare una grande spinta alle esportazioni perché la manifattura locale è di dimensioni modeste, mentre potrà danneggiare l’afflusso di capitali dato che una moneta debole e costantemente a rischio svalutazione non è certo appetibile per gli investitori. Ma quello che più preoccupa sono le conseguenze a medio-lungo termine”.
Più dal punto di vista politico o sotto l’aspetto dell’economia?
“La preoccupazione maggiore è il rischio di contagio politico nel resto dell’ Europa. Il prossimo anno ci saranno le elezioni in Francia ed in Germania. E poi ci sono paesi come la Spagna o l’Olanda che potrebbero essere tentati si seguire la strada inglese e tentare di recuperare una autonomia nella gestione della propria moneta e del bilancio statale nella convinzione che in questi modo sia possibile uscire rapidamente dalla crisi e soddisfare pressanti esigenze di carattere sociale. Ma una idea sbagliata e pericolosa. Già in passato abbiamo visto cosa vuol dire cercare di gestire lo sviluppo del proprio paese tramite la continua svalutazione del cambio, cioè a danno dei propri vicini che certamente sarebbero costretti a reagire. Svalutare ed indebitarsi può dare qualche sollievo nel breve termine, ma poi, e questo poi è sempre più ravvicinato, i nodi vengono al pettine. Il maggiore debito porterebbe a dover pagare interessi più elevati, l’inflazione danneggerebbe le classi più povere e quelle a reddito fisso, non ci sarebbe credito ne’ per i privati ne’ per gli investimenti produttivi. Senza contare che dal punto di vista politico il ritorno dei nazionalismi potrebbe fare da detonatore per conflitti anche più gravi”.
Non si può negare che l’Europa ha commesso molti errori nella gestione della crisi e che le istituzioni di Bruxelles non incontrano molti consensi tra i cittadini di tutti i paesi.
“In questo momento c’è nella pubblica opinione, spesso sospinta da politici che non vogliono assumersi le proprie responsabilità, una notevole disaffezione nei confronti dell’ Europa. Si sottovalutano i vantaggi che la costruzione europea ha portato a tutti i paesi in termini di allargamento dei mercati e delle opportunità. Per l’ Italia, ad esempio il beneficio in termini di riduzione dei tassi d’interesse arrivato con l’adesione all’Euro è stato enorme. Poi se lo abbiamo usato bene oppure male è un discorso diverso. Per quel che riguarda la gestione della crisi è certo che ci sono stati errori e ritardi. E’ mancata, accanto al risanamento, una strategia si crescita capace di dare ai cittadini europei il senso della direzione verso la quale si voleva andare. Le autorità europee non sono state capaci di gestire il fenomeno dell’immigrazione in modo da ampliare l’accoglienza ma soddisfare anche le esigenze di sicurezza e di tutela dei propri cittadini. Non siamo stati capaci di sviluppare una strategia di crescita basata su idee innovative riguardanti la formazione, la ricerca e l’innovazione, la mobilità delle persone da un posto di lavoro ad un altro. Anche il piano Juncker oltre ad essere modesto come dimensione, di fatto non innova nel metodo di selezione degli investimenti che rimangono collegati ai progetti nazionali. Nessun passo avanti si è fatto per costruire le reti intraeuropee per sviluppare un mercato unitario dell’ energia etc”.
Quindi ci troviamo di fronte ad un bivio drammatico. O si avvia una progressiva disarticolazione della costruzione europea e si torna ad una frantumazione per paesi o addirittura delle regioni all’interno del paesi (si pensi alla Scozia), oppure si compie un deciso passo in avanti verso la costruzione di un vero governo federale dotato di poteri fiscali e di rappresentanza esterna veramente incisivi.
“Non ci sono altre alternative. Tornare indietro è la strada più dirompente e altamente rischiosa per gli stessi cittadini. Bisogna andare avanti. Sono consapevole che la situazione politica in vari paesi non è favorevole per imprimere una decisa spinta verso il federalismo. Tuttavia sarebbe opportuno cominciare a dare qualche chiaro segnale sulla direzione che vogliamo prendere, magari iniziando a gestire la questione dei migranti con fondi europei, raccolti sui mercati direttamente da Bruxelles”.
L’Europa ha le sue responsabilità. C’è un eccesso di regolamentazione che sfiora a volte il ridicolo, come la lunghezza delle carote. Ma anche la Gran Bretagna in questi anni ha fatto più da freno che da stimolo verso l’evoluzione di una costruzione europea più funzionale alle esigenze di crescita e di libertà dei cittadini.
“La UE è certo in crisi. Tuttavia a volte le si attribuiscono delle colpe che non ha. Ad esempio in molti casi bisogna dire che la Commissione ha solo il potere di proposta e che poi le decisioni vengono adottate dai capi di governo e che spesso si tratta di misure a carattere protezionistico, cioè tendono a difendere i prodotti europei dalle concorrenza extra comunitaria. Per quanto riguarda l’Inghilterra, io sono piuttosto arrabbiato con gli amici inglesi che in questi anni hanno sempre ostacolato la creazione di strutture atte a gestire e controllare i mercati che devono essere liberi, certo, ma dotati di regole e controlli, che assicurino un corretto e trasparente funzionamento. La Gran Bretagna è stata sempre molto ambigua, attenta soprattutto a non accettare regole che potessero danneggiare il loro sistema finanziario. Il risultato di questa miopia è ora sotto gli occhi di tutti. Inglesi, per primi”.