Il nulla di fatto in Consiglio dei ministri sull’Imu e sul rifinanziamento della Cassa integrazione non deve suscitare delusione o sconcerto (come quella che si leggeva sul volto della Gruber o sulle pagine de Il Sole 24 Ore) ma deve essere preso come un salutare ritorno con i piedi per terra. Saccomanni ha infatti detto che l’imposta sulla casa non va completamente abolita ma, casomai, rivisitata secondo criteri di maggiore equità, così come per la cassa integrazione non si tratta tanto di continuare con l’attuale sistema che non è molto efficiente, ma bisogna rimodulare gli ammortizzatori sociali così da mettere insieme protezione del lavoratore con possibilità di reinserimento nel sistema produttivo. In più Saccomanni ha aggiunto che questo vale anche per la questione degli esodati per i quali non c’è un problema immediato (dato che tutti quelli del 2013 e 2014 sono coperti dagli attuali stanziamenti), ma eventualmente bisognerà ragionare su quelli che ancora devono uscire verso i quali occorre immaginare soluzioni diverse dal semplice collocamento in pensione.
Una vera e propria strage di luoghi comuni che sulla spinta di una informazione sempre più urlata e superficialmente pauperistica, stanno ottenebrando le menti degli italiani facendogli perdere anche quel solido buon senso contadino grazie al quale hanno costruito nel dopoguerra le basi dei successivi progressi. Non solo ma, sempre in maniera molto pacata, Saccomanni, ha fatto capire qual è la strada che bisognerebbe seguire: avviare una più efficace spending review, ridurre la giungla delle agevolazioni fiscali, concentrare la riduzione fiscale sul lavoro e sulle imprese, e ultimo, ma primo per importanza, ridurre o azzerare lo spread, e cioè contenere i tassi d’interesse sia per diminuire gli oneri a carico del bilancio pubblico, sia per riaprire i canali del credito per aziende e famiglie.
Sull’Europa poi è stato chiarissimo: niente rivisitazione del fiscal compact, niente richieste di proroghe per il rientro dal deficit, ma puntare tutte le carte sull’uscita dalla procedura di deficit eccessivo in modo da avere un via libera per aumentare gli investimenti e soprattutto per avere più voce in capitolo in Europa per cercare di modificare la politica monetaria della Bce e quella economica della commissione spingendo verso una maggiore attenzione al lavoro specie giovanile.
Anche verso l’Europa basta con la ricerca di facili bersagli sui quali scaricare le nostre responsabilità. Illuminante in proposito un articolo di Marco Vitale uscito su Il Fatto e passato sotto silenzio, nel quale si enumerano le cause della nostra crisi che non derivano dall’austerità dalla Merkel ( magari attuata con un po’ di ottusità teutonica), ma dipendono dagli sprechi da noi perpetrati negli ultimi vent’anni. Quando il paese scodella un Belsito qualsiasi e lo nomina sottosegretario e vice presidente di Fincantieri, quando si tollera lo scandalo Monte dei Paschi, quando si ha una macchina politica tra le più pletoriche e costose del mondo, quando si ha una P.a. mostruosamente inefficiente ed oppressiva verso i cittadini, quando si ha un alto livello di corruzione ed una Giustizia lenta ed incapace di dare sicurezze agli onesti, insomma – scrive Vitale – quando l’economia è abbandonata all’arbitrio burocratico ed alle rigidità sindacali, è troppo comodo scaricare tutte le colpe sull’Europa, e chiudere gli occhi di fronte ai nostri problemi. Lo stesso Mario Draghi viene strumentalizzato impropriamente riprendendo le sue giuste preoccupazioni sulla grave carenza di lavoro, specie per i giovani, dimenticandosi di citare i suoi ammonimenti circa le facili scorciatoie propugnate da alcune forze politiche. Draghi infatti ha citato anche durante la sua Lectio Magistralis per la laurea concessagli dalla Luiss, che in Italia la crescita era debole anche prima della crisi del 2007, nonostante un aumento tumultuoso della spesa pubblica. Quindi non è da un aumento della spesa statale finanziata con debito, che possiamo aspettarci un ritorno dell’Italia sulla strada dello sviluppo.
Ed allora cosa dobbiamo fare? Intanto bisogna evitare di cadere nella trappola di puntare solo su interventi di emergenza. E’ chiaro che siamo in una situazione di estrema sofferenza e quindi alcune misure tampone dovranno essere adottate. Ma sgombrato il terreno dal facile gioco di attribuire tutte le responsabilità della nostra crisi agli altri, ed evitando di cadere nella trappola di pensare all’emergenza solo in termini di elargizione di elemosine, occorre prendere piena consapevolezza che la nostra è una crisi di lunga durata che deriva essenzialmente da un collasso del sistema pubblico, cioè da un assetto istituzionale che rende impossibili le decisioni ed anzi spinge i partiti ed i singoli uomini politici a coltivare più gli interessi di singole corporazioni o gruppi di pressione che quelli generali.
Le riforme del nostro sistema politico-istituzionale ( e non solo della legge elettorale) non sono quindi una “perdita di tempo” rispetto alle urgenze economico-sociali, ma sono parte integrante di una strategia per uscire dalla stagnazione. E non si tratta solo di discutere dello stipendio dei parlamentari, ma di mettere mano al funzionamento delle Camere ( eliminando il bicameralismo perfetto) di rivedere le leggi sui poteri delle Regioni, di vendere beni e società pubbliche che spesso servono solo a foraggiare gli apparati dei partiti, di capire per quale ragione le pensioni di invalidità da quando sono state demandate alle Regioni sono aumentate di quasi un milione ( forse c’è stata una guerra e non ce ne siamo accorti?) , di eliminare i monopoli e di rendere funzionante la Giustizia. Altro che stravolgimento delle riforme Fornero sulle pensioni o sul mercato del lavoro: casomai queste riforme andrebbero ritoccate per eliminare quelle strozzature imposte dal conservatorismo sindacale e confindustriale che ne ha finora frenato la carica innovativa!
Le riforme, si dice, richiedono tempi lunghi. E’ probabile però che una intesa politica forte per l’avvio di un così vasto piano di riforme sarebbe determinante per cambiare le aspettative degli investitori nei confronti del nostro Paese, dando una spinta formidabile al recupero di competitività che può essere rapido ed imponente proprio perché negli ultimi vent’anni siamo rimasti indietro rispetto agli altri paesi europei . Questo insieme alla discesa dei tassi d’interesse, potrebbe innescare una rapida ripresa anche dell’occupazione.
Questo non vuol dire che dobbiamo trascurare l’emergenza ma che anche le misure che si vorrà prendere per fronteggiarla devono essere compatibili con le riforme di sistema che sono il vero ed unico punto da cui partire se si vuole rimuovere veramente le cause dell’arretramento dell’Italia. D’altra parte , una volta impostato un piano nazionale, di cambiamento del sistema, si potrebbe accelerare al massimo l’ottenimento di risultati visibili sulla nostra economia accettando di sottoscrivere con Bruxelles un memorandum d’intesa – come suggerito da Stefano Micossi – che peraltro non conterrebbe niente di più e di diverso da quello che autonomamente avremmo deciso di fare, aprendo così la strada agli acquisti dei nostri titoli pubblici da parte della Bce e soprattutto all’intervento del meccanismo europeo di stabilità per ricapitalizzare le nostre banche (senza impegnare denaro dello Stato italiano) eliminando la strozzatura del credito derivante soprattutto dalla carenza di mezzi propri delle nostre aziende di credito. Questo non esclude il potenziamento dei fondi di garanzia già esistenti presso la Cassa Depositi o i Confidi per il credito alle Pmi che hanno delle esigenze particolari.
Come ha detto Saccomanni, il momento della fine di questa lunga crisi potrebbe non essere lontano. Dobbiamo in questi mesi giocare bene le nostre carte, evitando di cedere alla demagogia ed al populismo alimentato dal circolo politico-mediatico, e puntare sulla soluzione di alcuni problemi di fondo che hanno reso finora l’Italia poco credibile e poco affidabile.