Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio. Fenomeno televisivo degli ultimi anni con il programma “Unti e Bisunti” (giunto alle riprese per la terza stagione) Rubio nasce rugbista. In questa veste è, infatti, ospite ai pre e post partita del Sei Nazioni su DMAX in “Rugby Social Club” in qualità in commentatore. Dopo aver attraversato tutte le selezioni giovanili delle nazionali italiane, ha giocato nel massimo campionato azzurro con diverse maglie – Parma, Roma, Piacenza, Rovigo e Lazio – per poi dedicarsi totalmente alla passione per la cucina, laureandosi all’ALMA (Scuola di cucina italiana).
Cosa ne pensi della polemica sollevata dal Times all’indomani della sconfitta della nazionale italiana di rugby contro l’Inghilterra?
“Prima me inviti a casa a magnà, e poi non ce stanno le sedie per mettese seduti!”. A parte gli scherzi, non sono affatto d’accordo sul fatto che l’Italia debba lasciare il Sei Nazioni. Capirei di più piuttosto una revisione di tutta la struttura del torneo. Pensare, per esempio a una sorta di pre-torneo che selezioni ogni anno sei nazionali che si sono meritate l’accesso al 6Nazioni ed escluda chi non è abbastanza forte. Parlare di mera esclusione dell’Italia semplicemente non ha senso. Comunque, personalmente, a me l’Italia piace. Ricordo quando ero ragazzino e vedevo giocare la nazionale Il gioco era diverso, meno dinamico, tutto concentrato tra gli avanti. Ora, soprattutto grazie ai giovani, il gioco è spesso arioso e divertente”.
Dove pensi che risieda il problema originario dell’Italrugby?
“Non sono io a dover dire dove risiede il problema. Io giudico quello che vedo: ragazzi che scendono in campo, sempre pronti a dare tutto – spesso anche con grande competenza, sicuramente con tantissima voglia di fare per la squadra e per questo sport. Sicuramente si possono fare dei miglioramenti, soprattutto per quanto riguarda la selezione e la formazione dei ragazzi. Lo sport sta crescendo molto, devono crescere anche le strutture che lo accompagnano. Lo sforzo è di tanti, basti pensare a quello che stanno facendo, per esempio, personaggi come Paul Griffen e tanti altri ex atleti che che credono ai colori italiani e si impegnano direttamente sul territorio. Una nazionale più forte cresce dal basso”.
Non credi esista un forte gap tra movimento nazionale e la rappresentanza nazionale del XV azzurro?
“Se devo dire la mia il tema del gap può essere legato al tema della selezione alla base. Ci sono tante persone che potrebbero dare il loro contributo perché vivono il mondo della palla ovale dal suo interno e in tutto il territorio italiano”.
Credi che la scelta di istituire le due franchigie di Treviso e Zebre per farle militare nel campionato estero del ProD12, sia stata utile a far crescere il movimento italiano?
“Ben vengano le franchigie, sono utili per farsi le ossa e innalzare il livello di un gruppo di giocatori. La speranza è che non ci si limiti solo a questi due bacini. Ci sono a mio avviso altri settori che sono una altrettanto reale espressione del movimento italiano da tenere sotto costante attenzione: Eccellenza, Seria A, Serie B e Serie C”.
Qual è stata la tua esperienza con la nazionale italiana di rugby? Perché la tua strada non è stata quella del rugby professionistico (6 Nazioni e test match)?
“Dall’Under17 fino alla Nazionale Under20 mi sono fatto tutta la trafila delle nazionali. Poi, purtroppo, sono arrivati gli infortuni. Mi sono perso i mondiali e il Sei Nazioni per una frattura al radio. L’anno dopo ho avuto un anno ancor più sfortunato a livello fisico, ed è stato giusto non rischiare di tirare troppo la corda. Una volta tornato in forze, cominciava a farsi strada la necessità di costruire una struttura fisica esasperata. Un’altra tornata d’ infortuni mi ha convinto che la mia strada non sarebbe stata quella del rugby professionistico. I miei “avversari” al tempo erano Parisse, Zanni, Ghiraldini: non proprio dei puffi, insomma! Se a livello tecnico potevo dire la mia, a livello fisico non potevo più competere – anche e soprattutto a causa dei troppi infortuni. Il mio ruolo sarebbe stato un altro, e così sono arrivato alla cucina e allo spettacolo che sono riuscito a unire alla mia passione ovale”.
Parliamo proprio della componente fisica. Non pensi sia diventata preponderante rispetto a quella tecnica?
“A mio avviso stiamo andando in questa direzione e se ci guardiamo attorno ci possiamo accorgere che è una peculiarità specialmente italiana. Pensate solo che nel campionato neozelandese dell’NPC la palestra è lasciata all’allenamento personale, mentre con la squadra ci si allena soltanto sull’erba, per migliorare capacità tecniche, skills specifiche e abilità tattiche”.
Come accennavi, tu hai giocato anche in Nuova Zelanda – la patria acquisita del rugby mondiale. Che differenze hai trovato tra il modo di fare rugby in Italia rispetto a quello neozelandese – proprio a livello di movimento e scelte federali?
“Cominciamo con il dire che la nostra Eccellenza (allora Top10) è nettamente inferiore del campionato di prima divisione neozelandese (il livello subito sotto all’NPC – il campionato nazionale delle province del Paese). Giocatori non pagati che ci mettono passione come da noi. Questa è l’unica cosa che abbiamo in comune. Le differenze arrivano quando bisogna selezionare i migliori. Lì vince chi è realmente più forte. Per parlare solo della mia esperienza, io sono stato selezionato per la prima squadra immediatamente dopo una mezza partita giocata alla grande. La volta dopo non ho reso allo stesso livello e sono stato rispostato in seconda squadra. E così funziona per tutti, anche per il capitano: se sbagli va via, se giochi bene vieni premiato, per il bene di tutto il movimento. E’ un approccio diverso ma che crea una tensione costante che potrebbe essere positiva anche per la motivazione”.
Pensi ci sia una sorta di “razzismo territoriale” nei processi di selezione che portano alla nazionale? E’, infatti, un dato che le rose nazionali sono fornite per la stragrande maggioranza da giocatori provenienti dal Nord-Est – inoltre ha fatto pensare che l’esordio di Visentin e Bacchin è stato giustamente pubblicizzato in pompa magna, mentre quello di Bisegni è passato un po’ in sordina. [Tra l’altro cogliamo qui l’occasione per augurare pronta guarigione proprio a Bisegni, che la settimana scorsa ha subito una lesione dei legamenti crociati anteriori].
“Come ti dicevo prima sono per un allargamento del bacino e in questo senso la storia di Bisegni può essere un esempio di un approccio diverso legato alla territorialità. Da parte mia posso solo sperare che Bisegni faccia un percorso da vero protagonista e che le decisioni siano legate in primis a un principio meritocratico che sicuramente premia lui e le sue prestazioni”.
Come giudichi le scelte di Brunel dal novembre dei test match a oggi?
“L’allenatore non si discute, così come l’arbitro. Entrambi fanno le loro scelte, e in entrambi i casi se ne assumono le conseguenze – nel bene e nel male”.
Cosa è successo domenica scorsa contro una Francia che non sembrava affatto irresistibile?
“È successo che non si può affossare una squadra per una partita persa, per poi idolatrarla la settimana dopo per una vittoria. È un comportamento mediocre. Inoltre la pioggia ha fomentato l’orgoglio francese, segnato dai fischi dell’ultima gara in casa, mentre ha mitigato l’ardore italiano dell’impresa al Murrayfield. Comunque è sempre la Francia, e perdere ci può stare”.
Come vedi l’Italia nel mondiale? Riusciremo a guadagnarci i quarti?
“Secondo me, se contro il Galles dimostriamo quanto realmente valiamo, possiamo arrivare con la giusta rabbia agonistica al mondiale. Un tipo di rabbia che ci può aiutare a dare quel di più per provare ad affacciarci ai quarti. Bisogna sperare nella motivazione dei ragazzi, senza sovraccaricarli di inutili pretese e aspettative, anche perché la loro realizzazione non possono dipendere esclusivamente da una loro prestazione. Certo se si vince contro i gallesi, si acquisisce una coscienza delle proprie potenzialità e il passaggio del turno sarebbe più a portata di mano. Una brutta prestazione, al contrario, vorrebbe dire rimanere nel limbo degli eterni incompiuti. L’imperativo non può che essere quello del lavorare a testa bassa, e magari a ottobre faremo finalmente quelle due o tre partite perfette e potremo festeggiare un gran bel risultato. Chissà”.