Scozia 19 – Italia 22. “L’Italia espugna Murrayfield”. “Un’Italia eroica batte gli scozzesi”. “I kilt degli Highlanders non bastano per tenere testa alla mischia italiana”. Festa grande, ben organizzata da tutti gli organi del settore – stampa, Federazione e anche il primo ministro Matteo Renzi. Insomma, le polemiche della settimana scorsa sono cadute nel dimenticatoio, l’Italia merita il Sei Nazioni, a uscirne dovrebbe essere la Scozia a quanto pare.
Già, parrebbe bastare una sconfitta per perdere il diritto a militare nel prestigioso torneo. Ci sta la gioia, ma forse un po’ di senso critico non guasterebbe all’onestà intellettuale di molti che si sono sbottonati così lautamente su una vittoria che in fondo non cambia nulla nelle profonde crepe nel movimento del rugby italico. Ma si sa, quella del tutti sul carro del vincitore è sempre una buona strategia.
La difesa del XV azzurro non è stata innalzata solamente in patria, anche all’estero in molti hanno ben giudicato la prestazione italiana, blasonando più di un giocatore. PlanetRugby, una delle più importanti riviste internazionali della palla ovale, ha inserito ben quattro azzurri nel XV ideale della terza giornata del Sei Nazioni. Al riguardo, se da un lato la prestazione di Parisse e Ghiraldini è sicuramente encomiabile e il loro due nomi ben figurano nel XV dei fenomeni del Sei nazioni, dall’altra le nomine di Venditti e Furno lasciano basiti.
Il primo non è mai stato incisivo, qualità che dovrebbe appartenere a ognuna delle sue prestazioni date le doti fisiche – 1,87 m per 110 kg per un’ala che alle giovanili correva i 100 m con tempi vicini ai colleghi dell’atletica. Quando si è cercato del lavoro da fare, l’ha fatto senza lasciare il segno, sempre andando a terra guadagnando pochi metri. La sua meta è frutto di un susseguirsi di eventi fortuiti che, dopo il rimbalzo del pallone prima sul palo poi sul terreno, l’hanno portato qualche centimetro al di là della linea di meta.
Descrivere la prestazione di Furno risulta quantomeno ostico, dato che difficilmente le sue gesta sul rettangolo di gioco possono essere definite rugbistiche. Come scritto nell’articolo sulle motivazioni dell’uscita dell’Italia dal Sei nazioni, lui è uno di quei giocatori rientranti nei vari progetti peso/altezza della Federazione che non si è trasformato in un investimento fruttuoso (ma che ci si ostina a definire tale). Placcaggi alti con presa alla maglia dell’avversario e annessa giravolta finché la forza centrifuga non fa precipitare i giocatori a terra.
Passaggi chiave sbagliati grossolanamente perché si trova spesso e volentieri in mezzo al campo a ricoprire zone di gioco che non possono competergli, lasciando invece sguarnite quelle che dovrebbero rientrare tra le sue abilità (ruck, maul, sostegno sull’asse). Anche qui, la meta realizzata è frutto del lavoro del pack completo – non di Furno – che ha ben organizzato il dirving maul seguente alla touche sui 5 m scozzesi. Anche qui, in realtà c’è quantomeno da evidenziare che risulta dubbio il fatto che una seconda linea sia il giocatore imputato di strappare l’ovale dalle mani del saltatore per svolgere il ruolo del timoniere del driving maul.
A parte queste due eccellenti prestazioni in negativo, in generale l’Italia è tornata a fare – dopo circa un quarto d’ora di gioco – quel poco che sa fare. Non far giocare gli avversari, condurre una difesa attendista – cosa permessa da una Scozia irriconoscibile rispetto alle prime due gare – e puntare tutto su una conclamata e riaffermata competenza tecnica in mischia. Come si ricordava sopra, due mete su tre sono arrivate dagli avanti, dopo minuti di gioco senza far affiorare la palla dal cumulo di braccia e maglie che la proteggevano. Proprio sul fattore mete segnate occorre puntare l’attenzione dato che tra le numerose classifiche nominate negli ultimi giorni ce n’è una dedicata proprio ai frutti dell’attacco azzurro.
In questo Sei Nazioni 2015 siamo secondi solo all’Inghilterra. Si parla di mete fatte, una classifica dove ci attestiamo sul gradino di mezzo del podio. Una stranezza che è ampiamente compensata dal ranking su chi ha subito più mete, dove ci stabiliamo al primo posto con ben 9 mete subite. Insomma, statistiche che non fanno chiarezza sulla vera natura di questa nazionale. Se in generale le statistiche svelano molto ma non tutto, in questo caso non svelano quasi nulla – se non il fatto che vi è un evidente problema di fondo.
Il problema di fondo è chiaramente quello suggerito nel precedente articolo, ossia un problema sistemico tutto incentrato sulle dinamiche di selezione e di crescita di giocatori e allenatori e alla mancanza di flusso diretto tra campionati italiani e rappresentanza nazionale. A darne conferma una volta di più ci sono i dati sui telespettatori della palla ovale. DMAX ha fatto un buon affare comprando i diritti del Sei Nazioni, che con le partite dell’Italia si assicura picchi di ascolto che sfiorano i 700mila spettatori. Se però si vuole vedere una partita del campionato d’eccellenza si fa fatica a trovare più di una o due partite trasmesse in diretta – e con una qualità pessima, tra l’altro. Ancora una volta, la nazionale è una cosa mentre la nazione Italrugby è diametralmente un’altra.
In conclusione, se servisse balzare sul carro del vincitore in marcia trionfale da Edimburgo a Roma perché cambi qualcosa in merito a queste problematiche non v’è dubbio alcuno che nessuno dovrebbe esimersi dal farlo. La realtà però, ahinoi, è che la partita di sabato scorso altro non è che una partita come un’altra, che poteva essere vinta e poteva essere persa. Se siamo stati più forti – e lo siamo stati – non cambia nulla dal punto di vista sistemico, i problemi rimangono e rimarranno gli stessi. Ci si può accontentare di una vittoria strappata negli ultimi 40 secondi e gioirne, oppure accettare quali siano le mancanze di un movimento sempre più fermo – e magari fare qualcosa in merito.