Le parti politiche che si contendono la vittoria del referendum scozzese di oggi si distinguono tra i “Better together” e gli “Yes Scotland”. Scozzesi con la palla ovale, la parola together, e i rugbisti inglesi sono invece tre fattori che proprio non puoi mettere nella stessa equazione. L’odio viscerale che scorre tra il sangue blu degli highlander e quello della nobiltà inglese che ha inventato il rugby, è tanto violento, quanto sano. Già sano, siamo sempre nel mondo della palla ovale, quindi quando si parla di odio e violenza, ci si sta riferendo a goliardia e antipatia atavica tra due popoli.
Tradizioni, culture, popolazioni che si riducono a villaggi antichi quando si incontrano su distese verdi – poco importa se a delimitarle ci siano o meno dei grandi pali messi a forma di “Acca”, sempre di guerra si parla. Fino a quando i coriacei highlander si sono dovuti arrendere allo strapotere dell’impero inglese e fondere la loro croce bianca nella Union Jack, gli scontri si combattevano in battaglie campali violentissime. Da quando poi, un ragazzino inglese di nome Webb Ellis prese a correre contro gli avversari durante una partita di calcio con la palla sotto il braccio – così vuole la leggenda della genesi del rugby – i combattimenti mutarono in match che ogni volta hanno il sapore di una storia lunga come il lago di Lochness.
Con il 5 Nazioni prima, e con il 6 Nazioni dal 2000 con l’ingresso dell’Italia poi, ogni anno inglesi e scozzesi si incontrano in due tra gli stadi più affascinanti del rugby mondiale. A Edimburgo il Murrayfield è la casa di ogni scozzese, dal vecchio con tanto di pipa, cornamusa e kilt, al bambino che si dipinge il viso con il bianco e con il blu e urla a squarciagola “Flower of Scotland”. A Londra, tra i tanti stadi di fede calcistica, ne spunta uno che per grandezza e prestigio non è secondo nemmeno al celebre Wembley, il Twickenam. Questa è la casa e la culla del Rugby, sì con la R maiuscola.
Entrambi con una capienza capace di ospitare qualche cosa meno di 100mila persone, quando si riempiono di scozzesi e di inglesi regalano un’atmosfera al cardiopalma. A Edimburgo – in pieno stile scottish – l’accoglienza per gli inglesi è cordiale e gentile e, com’è d’uopo, si fa suonare l’inno inglese intitolato “God Save the Queen”, e ne avrà bisogno di essere salvata quel giorno la regina, che infatti se n’è rimasta a Buckingam Palace. Il silenzio imbarazzante di tutte quelle migliaia di scozzesi è rotto solamente dai tanti inglesi arrivati per sostenere i propri colori, che però non riescono ad azzittire quel fracasso muto degli scozzesi – tutti highlander al Murrayfield – che aspettano solo il loro momento.
Silenzio. Le cornamuse di barbuti musicisti in kilt coloratissimi cominciano a intonare le prime note, e si leva graduale il canto scozzese “Oh flawers of Scotland, when will we see…”. Da lì in poi non puoi fare altro che alzare al massimo il volume – se non hai avuto la fortuna di volare a Edimburgo – e sentirti scozzese fino al midollo. All’esatta metà dell’inno, le cornamuse smettono di suonare, e l’inno continua, intonatissimo, a cappella. Più di 60mila scozzesi che cantano all’unisono che non si arrenderanno all’armata di re Edoardo, che vedranno ancora spostarsi al vento i loro fiori della Scozia, e spediranno l’esercito della rosa rossa indietro, verso Sud.
A prescindere da quale sarà il risultato del referendum di oggi, nel rugby la divisione tra inglesi e scozzesi sarà più netta che mai, e difficilmente vedremo al Murrayfield qualche striscione con su scritto “Better together”. Anche se il livello tecnico delle due squadre è da sempre impari – in favore dei maestri inglesi – la voglia di prevalere sugli invisi cugini britannici che ogni scozzese ha dentro, fa sì che la partita del 6 Nazioni tra Scozia e Inghilterra risulti tra le più emozionanti disputate ogni anno.