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Roy Caceres, dalla Colombia in Italia, chef in cerca di emozioni

Da piccolo tutto pensava fuorché di diventare chef, sognava di diventare aviatore, era affascinato dagli aerei che vedeva volare in alto sui cieli della Colombia, la sua fantasia spaziava sulla scoperta di nuovi mondi. Da adolescente si era buttato a capofitto nel basket: il gioco di squadra, la sfida, la tenacia nel dover conquistare il punto a tutti i costi, erano diventati una passione totalizzante, quasi un’ossessione.  Da grande queste qualità che avevano formato il suo carattere, fantasia e tenacia, lo guidarono quando – galeotto fu il libro – un cuoco gli regalò un libro di ricette di cucina che lo introdussero nel magico mondo del food. E da quel momento capì che il lungo viaggio che dalla Colombia lo aveva portato in Italia non era solo una questione di distanze geografiche ma qualcosa di molto di più, qualcosa che lo introduceva in una nuova cultura di storia, di tradizioni, di sapori, di gusto. Soprattutto di emozioni. Che la cucina sarebbe stata la sua vera e unica ragione di vita.

Roy Salomon Caceres, Chef stellato del Ristorante Metamorfosi a Roma, 42 anni, padre di tre bambini, rivede con commozione il percorso che lo ha portato da Bogotà, dove è nato il 29 aprile 1977, a Roma, dove sbarcò all’età di 16 anni.  Sua madre, che si era separata dal marito, quando era incinta di Roy, aveva scelto di cercare lavoro in Italia per offrire un futuro di maggiore soddisfazione per i suoi figli.

“In realtà quasi due terzi della mia vita li ho passati in Italia – dice Roy – ma non dimentico certe belle sensazioni provate nel mio paese. Come ad esempio quando la domenica mattina mio nonno, che era siriano, preparava a casa il kibbeh, un piatto di polpette tipico della cucina araba a base di carne d’agnello, che lui però sostituiva con il manzo, e bulgur, grano spezzato, mischiato con cipollotto e menta fresca. Quando passava il manzo e le verdure con il macinino me lo faceva assaggiare, crudo, e devo dire che questi strani sapori di altre culture culinarie, e soprattutto il fatto che fosse crudo, mi piacevano molto”.

Certo allora il giovane Roy tutto pensava fuorché di diventare chef. Ma mangiare gli piaceva eccome! “Sono sempre stato un gran mangione, un goloso”.  Ma se lo poteva permettere. A quell’età era preso solo dal basket. Si allenava cinque sei ore al giorno, giocava nella squadra della sua città e gareggiava nei campionati nazionali.  Con una tenacia fuori dall’ordinario: “di braccio sinistro non mi sentivo particolarmente forte, per questo, per mesi, durante gli allenamenti mi legavo il braccio destro al corpo per poter palleggiare e tirare solo con la mano mancina così da rinforzare la potenza del lancio”. Non c’è che dire, un bel caratterino.

L’arrivo in Italia a 16 anni e il primo lavoro in Sardegna

E quando arrivò in Italia a 16 anni la prima cosa che fece fu di presentarsi a una squadra di pallacanestro a Roma per giocare.  Ma il permesso di soggiorno non arrivò subito. Roy non si perse d’animo, senza tessera non poteva essere iscritto però frequentava il circolo, si allenava tutti i giorni sempre in attesa di quel permesso. “Era frustrante, ci allenavamo insieme però poi io non potevo giocare le partite…”.

Questa storia durò due anni fino a che si rese necessario dare un aiuto alla mamma. Il primo lavoro fu quello di manutentore in un villaggio turistico in Sardegna. Ancora una volta il ricordo del nonno ritorna nei suoi discorsi, oltre a cucinare i kibbeh, il nonno siriano faceva moli lavori a casa e Roy standogli vicino gli dava una mano apprendendo così a giostrarsi con pinze, martelli cacciaviti e seghetti.  E in Sardegna tutto ciò gli tornò utile.  Il ragazzo era molto pratico e quando arrivò l’inverno la società per cui lavorava la “Principe Viaggi”,  volle premiarlo mandandolo a lavorare come lavapiatti un albergo a Misurina vicino a Cortina d’Ampezzo.  Roy non si tira indietro, “non l’avevo mai fatto, ma avevo bisogno di lavorare”.  Nel piccolo albergo di Misurina il cuoco faceva tutto da sé, dalla pasta ai condimenti, non prendeva cibi semilavorati dall’esterno. Insomma aveva un gran daffare. Il giovane lavapiatti lo guarda ammirato mentre manipola gnocchi e tagliatelle, questo mondo di bontà che esce dalle mani, lo incuriosisce, gli ricorda il nonno quando lavorava il kibbeh.  A mezza bocca si offre di dargli una mano, di aiutarlo nei lavori di cucina. Ovviamente i piatti li laverà tutti a fine servizio senza limiti di orari. “Certo per imparare qualcosa in cucina dovevo lasciare i piatti ma dopo li dovevo lavare comunque lavorando fino a tardi.  Ma a quell’età non ti pesa, avevo cominciato ad appassionarmi ai fornelli…”.  Il cuoco lo vede così assiduo, così attento che un giorno gli regala un libro di cucina “sono passati tanti anni, ma ancora lo conservo. Era un manuale di cucina classica, di impronta francese, per me è stato un vero e proprio libro di testo.  Lo divorai, studiai tutto. Mi sentivo in difetto con gli amici che uscivano dalle scuole alberghiere, per questo quando loro se ne andavano la sera in discoteca io me ne rimanevo in camera a studiare non solo il libro che mi era stato regalato ma anche altri, riviste, giornali”.

Manco a dirlo ben presto il lavapiatti rimane un lontano ricordo. Roy fa diverse esperienze, arriva in un ristorante sul Monte Amiata, è subito capo partita e dopo soli tre mesi – quando vedono di che pasta è fatto – diventa aiuto cuoco.  Una mansione di capo partita e poi di aiuto cuoco, conquistata sul campo solo con la sua forza di volontà. Si facevano grandi numeri, 150-200 coperti, ma Caceres cerca ben altro.

“Cercavo emozioni non gratificazioni, dice oggi”. E le prime vere emozioni le trova quando lo prendono al Pellicano il ristorante gourmet di Porto Ercole, dal quale sono passati alcuni fra i più grandi chef italiani.  E’ capo partita ai primi piatti. Un grande impegno, c’erano undici cuochi, vede come lavorano le cucine organizzate in un certo modo, conosce il rigore, affina la ricerca del gusto, il senso della perfezione, il puzzle di sapori e componenti che deve essere sempre giocato fino all’ultimo e sempre essere messo in discussione fino alla presentazione.  Se prima di quel momento poteva immaginarsi qualche esitazione o ripensamento il fascinoso mondo del Pellicano fuga ogni dubbio. Caceres capisce bene quello che vuole in cucina e come ottenerlo.

Arriva la prima stella alla Locanda Solarola di Castel Guelfo

Così dopo un anno di quella straordinaria esperienza fa il suo ingresso alla Locanda Solarola di Castel Guelfo vicino a Bologna.  Un’atmosfera da casa di campagna aristocratica dei primi del Novecento, con ampi salotti arredati in stile, circondati da un favoloso parco con piscina e una cucina che Bruno Barbieri prima di abbandonarla per passare al ristorante “Il Trigabolo” di Argenta di Ferrara, e poi al “Grotta di Brisighella” e poi ancora all’Arquade di Villa del Quar a Verona aveva fregiato delle due stelle Michelin che si portava appresso ovunque andasse.   La proprietaria, Antonella  Scardovi, pure lei un bel caratterino, alle stelle della Michelin non voleva rinunciare se non due almeno una doveva restare sulla sua locanda, per questo si era messa in gioco in prima persona aveva conquistato una stella e cercava ragazzi che magari dal punto di vista tecnico potessero aiutarla a mantenerla nel tempo. Caceres la convinse subito.  E mentre lui si dava da fare in cucina portò con sé la moglie che si occupava della reception. Sono anni di grande soddisfazione, oramai le linee guida della sua cucina sono solide. Può anche pensare ad allargare la famiglia, nasce Nicolas, il primogenito e subito dopo arriva il secondo. Di li a qualche tempo la signora Scardovi ha però problemi di salute, deve prendere una decisione importante, lasciare la cucina in mani fidate. “Abbiamo parlato a lungo, le dissi: io posso prendere la cucina in mano ma lei mi deve dare carta bianca. Ormai mi conosce, sono tanti anni che lavoriamo insieme.  Sicuramente non stravolgerò la sua cucina ma voglio anche dare una mia impronta”.  La signora accetta, e Roy Caceres a 29 anni diventa lo chef della Locanda Solarola di Castel Guelfo. Gli ispettori della Guida Michelin arrivano, assaggiano la sua cucina, e confermano la stella della Guida Rossa. Oramai è un grande.

I tempi sono maturi perché ora abbia un ristorante tutto suo. Caceres scende a Roma e individua in un locale in Via Antonelli, ai parioli, il posto da cui partire per la nuova avventura. Che in capo a un anno e mezzo, tanto per cambiare, riceve subito una stella Michelin. Emozionante come è stato il suo percorso. Quella emozione – parola ricorrente nel suo parlare – che gli si legge negli occhi quando, con la sua cadenza ancora hispanica che ispira grande simpatia, descrive il suo ristorante: “Metamorfosi” come trasformazione. come mutamento, come rinnovamento come sintesi della sua vita, come la filosofia che lo ha sempre ispirato e che si racchiude nel claim del locale “Cambiare è un’arte, evolversi è una missione.” 

Ogni piatto è una storia emozionante, un racconto

Perché – come gli piace sottolineare – ogni piatto è una storia emozionante, ogni ricetta un racconto che parla di innovazione e arte del cambiamento, ogni menù un percorso che intreccia modernità e tradizione. “Tutti i nostri piatti sono portati avanti con l’idea che dobbiamo emozionare le persone.  Da quando ho cominciato questo mestiere ho sempre pensato che un piatto nasce dalla testa, passa per il cuore e poi arriva alla pancia. Beninteso dietro ci deve essere una tecnica solida che però non deve essere quasi percepita. La tecnica è uno strumento per esaltare la materia prima ed qui in Italia di materie prime eccezionali, noi – da sottolineare il “noi” di un colombiano inorgoglito dal suo paese di adozione – ne abbiamo più di tutti al mondo, abbiamo una ricchezza che tutti ci invidiano e a ragione.  Ma io voglio anche che tutto questo patrimonio arrivi a chi viene qui da noi a mangiare. Per questo il racconto, è fondamentale, perché aiuta ad esaltare la percezione del gusto.  io ti racconto la storia di questo piatto come l’ho pensato, come abbiamo raggiunto questo risultato, quanto ci abbiamo lavorato”.

E un lungo racconto è dietro il suo risotto opercolato con funghi e nocciole, un piatto studiato per sei mesi. Un risotto totalizzante secondo lo chef che deve coinvolgere tutti i sensi del commensale. Non solo gusto e olfatto, (sarebbe stato fin troppo facile!), ma anche vista, udito, tatto. Al punto che ha fatto realizzare delle stoviglie speciali per gustarlo. Ma non c’era verso di rimanere soddisfatti. Così, alla fine, si è rivolto ad un artigiano per ottenere delle ciotole di legno lavorato a mano e delle doghe di legno di ulivo, dalle quali realizzare cucchiai che poi lo chef in persona ha rifinito a mano fino ad ottenere la forma desiderata. Perché quel risotto deve arrivare alla bocca senza che si avverta un rumore di stoviglia, una sensazione metallica di una posata, tutto deve essere naturale in un processo che rimanda a riti antichi. Emozionali.

Ristorante Metamorfosi – Roma

Indirizzo: via Antonelli, 30/32 – 00197 Roma
Telefono: 06 8076839
Sito internet: www.metamorfosiroma.it
Giorno chiusura: sabato a pranzo e domenica
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Tags: Chef