Molto differenti, ma uguali su un punto
Il liberalismo è una grande chiesa. In questa serie abbiamo parlato – sulla scia delle riflessioni aperte dal think tank dell’Economist sul liberalismo contemporaneo – di libertari come Robert Nozick, di interventisti come John Maynard Keynes, di fondamentalisti del governo minimo come Friedrich Hayek e di pragmatici come John Stuart Mill.
Ma non possiamo non occuparci dei nemici del liberalismo. Questo ultimo contributo cerca di raffinare la definizione di liberalismo in relazione al pensiero di tre anti-liberali: Jean-Jacques Rousseau, una superstar dell’illuminismo francese; Karl Marx, un comunista rivoluzionario tedesco del XIX secolo; e Friedrich Nietzsche, 30 anni più giovane di Marx e uno dei più grandi dissidenti della storia della filosofia. Ognuno di loro ha un molteplice e ben caratterizzato ambito di idee e di interessi. Ma tutti sono accomunati dal rigetto della visione liberale del progresso.
I liberali credono che le cose tendano a migliorare. La ricchezza può crescere, la scienza può approfondire la comprensione del mondo, la saggezza può diffondersi e la società migliora da tutto questo. Ma i liberali non sono degli idioti nel loro candore progressista. Hanno visto come l’Illuminismo, che ha esaltato la ragione come motore dell’umanità, ha condotto agli eccessi della rivoluzione francese e prodotto il terrore omicida che alla fine l’ha consumata. Il progresso è una conquista continuamente in pericolo.
Per questo i liberali si sono proposti di definire le condizioni del progresso. Credono che la libera discussione e la libertà di parola generino delle buone idee e contribuiscano a propagarle. Rigettano la concentrazione del potere perché i gruppi dominanti tendono ad abusare dei loro privilegi, opprimendo gli altri e sovvertendo le norme del bene comune. E affermano la dignità individuale, il che significa che nessuno, per quanto certo sia delle proprie idee, può costringere gli altri a rinunciare alle proprie convinzioni.
Diversamente, Rousseau, Marx e Nietzsche respingono e combattono tutta questa visione d’insieme e interpretazione delle relazioni sociali. Rousseau dubita del progresso stesso. Marx pensa che il progresso sia possibile solo se spinto dalla lotta di classe e dalla rivoluzione. Nietzsche è convinto che, per non affondare nel nichilismo, la società deve affidarsi a un eroico salvatore, a un Übermensch. Chi è venuto dopo di loro e ha seguito queste idee ha compiuto cose terribili nel loro nome.
Jean-Jacques Rousseau
Rousseau (1712-1778) fu il più schiettamente pessimista degli illuministi. David Hume, Voltaire, Denis Diderot e altri contemporanei di Rousseau ritenevano che l’Illuminismo potesse dare un contributo decisivo a riparare ai molti torti subiti dalla società. Rousseau, che col tempo divenne un loro acerbo nemico, pensò che la fonte di quei torti fosse la società stessa.
In Un discorso sull’ineguaglianza spiega che l’umanità è veramente libera solo nello stato di natura. In quello stato, la nozione di ineguaglianza è priva di significato perché l’essere umano originario è solo e non è in relazione con niente. La rovina dello stato originario è intervenuta quando un uomo ha prima recintato un terreno e poi ha dichiarato: “Questo è mio”. Scrive Rousseau: “Da quando ci si accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’eguaglianza scomparve, fu introdotta la proprietà, il lavoro diventò necessario e le vaste foreste si trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli uomini, e dove presto si videro germogliare, con le messi, la schiavitù e la miseria”.
La filosofia politica di Rousseau è un tentativo di riparare alle conseguenze dell’uscita della società dallo stato incontaminato di natura. Il contratto sociale si apre con una dichiarazione tonante: “L’uomo nasce libero e ovunque è in catene”. L’uomo è buono di natura, ma la società lo corrompe. L’ordine sociale non viene dalla natura, ma è fondato sulle convenzioni sociali. Il contratto sociale si propone di limitare questo danno originario.
La sovranità, scrive il pensatore ginevrino, scaturisce dalle persone, intese come individui. Se allora il governo è il servitore del popolo sovrano, il suo mandato deve essere rinnovato periodicamente. Se il governo fallisce, le persone possono sostituirlo. Oggi questa dichiarazione potrebbe sembrare semplicemente di buon senso, ma nella società di allora, fondata sulla monarchia e l’aristocrazia, era un principio rivoluzionario.
Però… la società rende le persone egoiste. “Le leggi sono sempre utili per coloro che possiedono beni e sono dannose per coloro che non hanno niente.” La religione è un altro male. Scrive: “I veri cristiani sono fatti per essere schiavi”.
L’uguaglianza, sebbene non concepita come un principio fine a se stesso, deve quindi essere imposta come un modo per contrastare i desideri egoistici degli individui e la loro sottomissione alla società. Scrive nel capitolo sette del Contratto sociale: ” Perché dunque il patto sociale non sia una vuota formula, esso deve racchiudere tacitamente in sé questo impegno, che solo può dare forza a tutti gli altri, e cioè che chi rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà obbligato da tutto il corpo sociale, il che non vuol significare altro che lo si forzerà a essere libero, perché si tratta di una condizione che, offrendo ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni vincolo di dipendenza personale; situazione che costituisce la tecnica e il gioco della macchina politica e che sola rende legittimi gli obblighi civili, i quali, al di fuori di essa, sarebbero assurdi, tirannici e sottoposti ai più enormi abusi”.
I rivoluzionari hanno visto in questa formula la giustificazione per l’uso tirannico della violenza nel perseguimento di un’utopia. Gli studiosi, però, generalmente contestano questo tipo di lettura. Leo Damrosch, nella sua biografia di Rousseau, accosta la nozione di volontà generale al pessimismo di Rousseau. Le persone sono talmente lontane dallo stato di natura che hanno bisogno di essere aiutate per tornare libere. Anthony Gottlieb, nella sua storia dell’Illuminismo, cita Rousseau come una persona con “la più grande avversione alle rivoluzioni”.
Eppure quel treno di pensieri ininterrotti sulla regressione e sulla coercizione, anche nella sua forma più lieve, sfiora il liberalismo stesso. Ogni volta che una persona, in una posizione di potere, costringe qualcun altro, in nome del suo stesso bene, ad agire contro la sua libera volontà si invoca il fantasma di Rousseau.
Karl Marx
Marx (1818-1883) riteneva che il progresso non fosse prodotto dalla filosofia e dalla scienza, ma dalla lotta di classe che agiva attraverso la storia. Come Rousseau, pensava che la società e in particolare le sue basi economiche fossero la fonte dell’oppressione. Nel 1847, poco prima che un’ondata di disordini attraversasse l’Europa, scriveva: “Nel momento stesso in cui inizia la civiltà, la produzione comincia a essere fondata sull’antagonismo di ordini, proprietà, classi e infine sull’antagonismo di lavoro produttivo e rendita. Nessun antagonismo, nessun progresso. Questa è la legge che ha governato la civiltà fino ai nostri giorni “.
L’eccedenza creata dal lavoro è sequestrata dai capitalisti, proprietari delle fabbriche e dei macchinari. Il capitalismo trasforma quindi i lavoratori in merci e nega la loro umanità. Mentre i borghesi saziano il loro appetito per il divertimento e il cibo, i lavoratori devono sopportare lo squallido tram-tram quotidiano e cibarsi di patate marce.
Per questa ragione, il capitalismo contiene il seme della sua stessa distruzione. La competizione lo obbliga a diffondersi: “Deve annidarsi e stabilirsi ovunque, creare legami ovunque”. Così facendo, crea e organizza un proletariato sempre più grande che continua, allo stesso tempo, ad immiserirsi. I capitalisti non abbandoneranno mai volontariamente i loro privilegi. Alla fine, quindi, gli operai si solleveranno per spazzare via sia la borghesia che il proletariato e creare un nuovo ordine, un ordine migliore del precedente. Questo lavoro rivoluzionario non sarà compiuto da un leader eroico, ma dai lavoratori stessi, come classe organizzata in un partito, quello comunista. “Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o anche l’intero proletariato, al momento, considera come il suo scopo – scrisse Marx a Friedrich Engels, suo collaboratore, nel 1844. Si tratta di ciò che il proletariato è e ciò che, in accordo con questo essere, sarà storicamente costretto a fare “. Quattro anni dopo, nell’apertura di Il Manifesto Comunista, i due predissero la rivoluzione:” Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo”.
I liberali credono che tutte le persone condividano gli stessi bisogni fondamentali, quindi la ragione e la compassione possono condurre a un mondo migliore. Marx pensava che tale visione del mondo fosse, nel migliore dei casi, delirante e, nel peggiore, una manovra subdola per manovrare i lavoratori.
Ha disprezzato la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, il manifesto politico della rivoluzione francese, come una carta fatta apposta per la proprietà privata e l’individualismo borghese. Le ideologie come la religione e il nazionalismo non sono altro che autoinganni. I tentativi di realizzare un cambiamento graduale sono trappole messe dalla classe dominante. Il filosofo Isaiah Berlin, nel suo libro su Marx, riassumeva così questo punto di vista: “Il socialismo non fa appello, ordina”.
Eppure Marx sottovalutava la capacità di resistenza del capitalismo. Il capitalismo ha saputo evitare la rivoluzione promuovendo il cambiamento attraverso il dibattito e il compromesso; si è riformato rompendo i monopoli e regolando gli eccessi; ha trasformato i lavoratori in clienti fornendogli beni che, ai tempi di Marx, sarebbero stati adatti a un re. In effetti, nei suoi ultimi anni, come spiega Gareth Stedman Jones, un recente biografo, Marx è uscito sconfitto nello sforzo di dimostrare il motivo per cui i rapporti economici tra il capitale e il lavoro devono necessariamente essere regolati con la violenza.
Marx rimane comunque un grande monito contro l’autocompiacimento liberale. Oggi l’indignazione sta sostituendo il dibattito. Gli interessi industriali e finanziari interconnessi stanno catturando la politica e seminando disuguaglianza. Se quelle forze bloccano lo sviluppo delle condizioni liberali per il progresso generale, la pressione inizierà nuovamente a salire e la previsione di Marx si avvererà.
Friedrich Nietzsche
Mentre Marx guardava alla lotta di classe come motore del progresso, Nietzsche (1844-1900) scrutava nell’interiorità delle persone, immergendosi nei territori oscuri, negli angoli dimenticati della coscienza individuale. E là vide che l’uomo era sull’orlo del collasso morale.
Nietzsche espone la sua visione del progresso in Sulla genealogia della morale, scritta nel 1887, due anni prima che venisse colpito dalla follia. In una scrittura di straordinaria vitalità, descrive come ci sia stato un tempo nella storia umana quando i valori nobili e vigorosi, come il coraggio, l’orgoglio e l’onore, avevano prevalso. Ma questi valori erano stati soppiantati durante una “rivolta degli schiavi della moralità”, iniziata dagli ebrei sotto il giogo dei babilonesi, continuata dai romani e infine ereditata dai cristiani. Gli schiavi elevavano la loro condizione, in contrasto a quella dei loro padroni, al di sopra di tutti i valori: “i miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gl’impotenti, gli umili sono i buoni, i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici uomini pii, per i quali soli esiste una beatitudine – mentre invece voi, voi nobili e potenti, siete per l’eternità i malvagi, i crudeli, i lascivi, gl’insaziati, gli empi, e sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledetti e i dannati!”
La ricerca della verità ha continuato ad alimentare il pensiero dell’uomo. Ma questa ricerca ha portato ineluttabilmente all’ateismo. È questa la terribile catastrofe di un pensiero millenario che alla fine ha negato a se stesso la menzogna insita nel credere in un Dio. “Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?»
Ci vuole coraggio per guardare dentro l’abisso ma, in una esistenza di sofferenza e solitudine, a Nietzsche il coraggio non è mancato mai. Sue Prideaux, in una nuova biografia, spiega come Nietzsche abbia cercato disperatamente di mettere in guardia i razionalisti e i positivisti, che avevano abbracciato l’ateismo, che il mondo non poteva sostenere la moralità schiava cristiana senza la sua teologia. Incapace di comprendere la sofferenza come virtù religiosa o di liberarsi dalla corazza coriacea creata dalla virtù liberata dalla religione, l’umanità era destinata a sprofondare nel nichilismo, cioè in un’esistenza desolata e senza significato.
La soluzione di Nietzsche è profondamente soggettiva. Gli individui devono guardare nella loro interiorità per riscoprire la nobile moralità perduta così da diventare Übermensch, una figura delineata in Così parlò Zarathustra, l’opera più famosa di Nietzsche. Come al solito, Nietzsche è vago su chi possa essere esattamente un Übermensch. Napoleone potrebbe esserlo; come potrebbe esserlo Goethe, lo scrittore e statista tedesco. Nella sua lucida indagine sul pensiero di Nietzsche, Michael Tanner scrive che l’Übermensch è l’anima eroica desiderosa di dire sì a qualsiasi cosa, sia essa gioia che dolore.
Non è possibile criticare Nietzsche in modo convenzionale, perché le sue idee sgorgano in un torrente di pensieri in continua, passionale evoluzione. Sia la sinistra politica che la destra hanno trovato ispirazione negli argomenti della sua soggettività; nel suo gioco linguistico come metodo filosofico e nel modo in cui collega verità, potere e moralità È il padre dell’idea che non puoi scindere ciò che viene detto da chi lo sta dicendo.
Il liberalismo non ha le risposte
La visione illiberale del progresso ha una striscia terribile di primati. Maximilien Robespierre, architetto del terrore, invocò Rousseau; Joseph Stalin e Mao Zedong invocarono Marx; Adolf Hitler invocò Nietzsche.
Il passaggio dal pensiero illiberale al terrore è facile da tracciare. Nei regimi illiberali il dibattito sul modo di migliorare il mondo perde di senso: ci sono le certezze di Marx sul capitalismo, il pessimismo di Rousseau e il superuomo di Nietzsche a fornire le risposte che occorrono. In queste società, in nome del bene comune e di uno scopo superiore, il potere tende a crescere e a accumularsi nelle mani di pochi, di una classe come di Marx, di un Übermenschen come in Nietzsche o attraverso la manipolazione coattiva della volontà generale come in Rousseau. La crescita del potere calpesta la dignità dell’individuo, perché questo è quello che fa il potere.
Il liberalismo, al contrario, non crede di avere tutte le risposte. Questa è, forse, la più grande forza del pensiero liberale e delle democrazie che sono nate sulle sue basi.