Nel suo ultimo libro “La politica economica italiana dal 1968 ad oggi” Salvatore Rossi, già Direttore generale della Banca d’Italia e da qualche mese Presidente di Tim, sostiene che talvolta la storia “fa salti”. C’è da augurarsi che succeda così anche stavolta perchè la recessione che l’emergenza Coronavirus provocherà sarà molto profonda e solo un miracolo potrà mitigarne gli effetti. Ma quel che è certo è che la pandemia cambierà profondamente la nostra vita, che lo smart working non sarà una moda effimera e che le telecomunicazioni e la digitalizzazzione avranno un ruolo sempre maggiore. Ma altrettanto certo è che, per tirare fuori l’Italia dalla crisi e per rilanciarne l’economia correggendo le distorsioni che esistevano già prima del Coronavirus, occorrerrano molti soldi e subito. In questa intervista a FIRSTonline Salvatore Rossi spiega il perchè.
Il Fondo Monetario Internazionale ha di recente preannunciato una recessione spaventosa indotta dalla pandemia e segnalato che l’Italia sarà il Paese più colpito, con crollo del Pil ed esplosione del debito pubblico: con la sua esperienza di economista e dal suo attuale osservatorio della presidenza di Tim, come le appare l’orizzonte economico del nostro Paese?
“Mi appare molto accidentato nei mesi a venire, non solo per l’Italia. Lo scoppio dell’epidemia ha causato l’arresto di una parte ingente dell’attività economica, molte fabbriche e molti uffici hanno chiuso. Gli economisti la chiamano “crisi d’offerta”: avviene quando una causa esterna, imprevedibile, blocca o distrugge ampi pezzi della capacità produttiva esistente, come per un’improvvisa rivoluzione tecnologica, per una guerra, appunto per un’epidemia. Sempre per usare il linguaggio degli economisti, una “crisi di domanda” non si fa attendere. Chi chiude non guadagna, e si può trattare anche di molti milioni di persone, se pensiamo a tutti i lavoratori autonomi e alle piccolissime imprese. Le imprese e le organizzazioni più grandi, pubbliche e private, se possono fanno lavorare i propri addetti da casa, se no li sospendono, spesso senza stipendio, affidandoli ai meccanismi pubblici di sostegno come la Cassa integrazione. Chi sta a casa, soprattutto se non sa quando e se riavrà un reddito, riduce fortemente i suoi consumi, limitandoli al cibo e a poco più. A loro volta, gli imprenditori e i manager d’impresa ritardano o sospendono gli investimenti, per paura del futuro. L’offerta cade, la domanda cade, non può non risultarne una recessione, anche grave. Il Fondo monetario internazionale, che lei citava, ha disegnato a metà aprile uno scenario in cui il prodotto mondiale diminuisce in media nel 2020 del 3%, come risultato di un -6% nei paesi avanzati e di un -1% nei paesi emergenti e in via di sviluppo. In quello scenario all’Italia è assegnato un drammatico -9%. Molti osservatori pensano comunque che sia una prospettiva ottimistica. Lo stesso governo italiano ha disegnato scenari in cui la caduta per quest’anno può oltrepassare il 10%”.
“L‘Italia – scrive lei nel suo ultimo libro,”La politica economica italiana dal 1968 ad oggi”, edito da Laterza – ha attraversato un confuso periodo costituente, durato, fra periodi di annoiata stanchezza e improvvisi ritorni di fiamma, un quarto di secolo. Senza esiti sostanziali”. L’unica concessione che lei fa all’ottimismo è quella di avere fiducia nella storia, perché essa a volte “fa salti”. E dunque: potrebbe essere questo il momento? Quanto pensa che saremo costretti a cambiare per convivere con il Covid? Su che basi? Insomma, cosa va cambiato nell’Italia delle botteghe e dei campanili?
“Nei primi anni Novanta del secolo scorso l’Italia ebbe un forte sussulto: la traumatica svalutazione della lira, il crollo rovinoso della cosiddetta Prima repubblica aprirono, come lei ricorda, un periodo costituente, che fece sperare nello scioglimento di quelle ruggini che avevano nel corso degli anni grippato il motore del nostro paese. Si andò vicini alla rifondazione del Paese, ma la si mancò. Da allora sono passati venticinque anni o più di attesa di un nuovo “salto” della storia patria, che potesse, che possa, rimetterci sulla carreggiata di uno sviluppo economico e sociale impetuoso come quello della ricostruzione post-bellica e del “miracolo” successivo. Può essere questa crisi l’evento scatenante? Si, sarebbe un modo per dare un senso positivo a fatti altrimenti tragici. La pandemia da coronavirus imporrà al mondo intero dei mutamenti di comportamenti individuali, di abitudini sociali, di politiche nazionali, di relazioni internazionali. Alcuni saranno mutamenti permanenti, che si aggiungeranno a, o interagiranno con, quelli determinati dall’evoluzione tecnologica. C’è un dibattito intenso fra esperti e opinion leaders su questo, non c’è ancora consenso su quanto e in che cosa la nostra vita sarà diversa da prima. Se la società italiana e i suoi rappresentanti politici riuscissero in questo terribile frangente a imprimere una discontinuità nel modo di funzionamento del nostro paese la crisi non sarebbe accaduta del tutto invano. Penso in particolare a quel reticolo di norme e regolamenti che imbriglia da troppi anni le nostre energie produttive e che s’infittisce sempre di più. Basterebbe dare ascolto a giuristi illuminati come Sabino Cassese per capire come fare a sbrogliare la soffocante matassa. È lì che si annida la causa più importante della nostra incapacità di volare”.
C’è chi spera che l’andamento dell’economia italiana possa essere a V con forte recessione immediata e rapida ripresa nei mesi successivi, ma tra gli economisti c’è anche chi dubita assai di questa seconda ipotesi: qual è il suo punto di vista?
“Tutto dipende da due cose: quanto dura il blocco parziale dell’economia; soprattutto, quante risorse pubbliche vengono stanziate e come vengono erogate. Mi faccia ricorrere a una metafora. L’epidemia e le necessarie misure per arginarla (zone rosse, lockdown) scavano un baratro sotto i nostri piedi. Il compito, direi il dovere, del governo, di qualunque governo in qualunque paese, è di stendere un ponte sull’abisso e traghettarvi tutta l’economia. Più le due sponde sono lontane più complicato è il salvataggio; ma ammesso che non siano troppo lontane, cioè che il lockdown possa essere rimosso in gran parte dopo due o tre mesi, è comunque importante che il ponte sia robusto e largo. Significa compensare le imprese per i mancati guadagni del periodo di blocco, in modo che possano assicurare la continuità dei propri redditi e di quelli dei loro dipendenti. Ci vogliono, quindi, tanti soldi, capitali, non solo prestiti. Caricare debiti sulle spalle di molte imprese, soprattutto piccole, vuol dire segnarne inesorabilmente il destino prima o poi. Coinvolgere le banche va bene perché hanno la capacità operativa di dare soldi rapidamente a milioni di soggetti, ma dovrebbero essere meri agenti del potere pubblico. E non si può andare molto per il sottile, si diano soldi a chiunque li chieda sulla base di un’autocertificazione. Si infiltreranno approfittatori di ogni sorta? Li si scoverà ex post sulla base di controlli a campione, ma se le procedure di erogazione si appesantiscono con molti controlli ex ante il ponte non lo si finisce mai e tutta l’economia cade nell’abisso. In quel caso, altro che V! Se invece il ponte viene costruito e il salvataggio funziona allora la ripresa può arrivare rapida e forte”.
Insieme allo scenario economico, la pandemia sembra aver rivoluzionato il paradigma economico e politico europeo: dopo lunghi anni di immobilismo, l’Europa ha battuto un colpo in direzione della crescita economica; l’intervento dello Stato nella gestione delle imprese non è più un tabù; le regole della Ue per le banche sembrano farsi più morbide. Resteranno novità contingenti o apriranno una nuova fase? Quanto è realistico immaginare per esempio l’unione fiscale fra i paesi che hanno voluto la moneta unica e quanto è concepibile una progressiva centralizzazione delle funzioni pubbliche, o anche solo un maggior coordinamento delle politiche di bilancio nazionali?
“Posso intanto terminare il ragionamento precedente e tentare di rispondere alla domanda: chi finanzia questo sforzo straordinario degli Stati? Perché questo ci porta in Europa. Abbiamo detto che per fronteggiare l’emergenza economica, cioè per costruire il ponte, ci vogliono molti soldi pubblici: se il buco da colmare equivale al PIL perso, sono in Italia circa 200 miliardi, in contanti e subito. Posto che le tasse non si possano alzare, occorre che lo Stato italiano s’indebiti ulteriormente: considerando anche il PIL in riduzione, il rapporto debito pubblico/PIL (a parità del resto) andrebbe verso il 160%. Se il nostro Stato si presentasse da solo a chiedere soldi in prestito agli investitori sul mercato, si troverebbe in serie difficoltà avendo già un indebitamento molto alto. Ma ha dietro le spalle una istituzione europea, la BCE, la quale ha già annunciato di voler comprare molti dei nuovi titoli da emettere, al limite tutti, subito dopo il loro collocamento sul mercato. La BCE lo fa restando pienamente nell’ambito del suo mandato, per scongiurare un rischio di deflazione che si fa di nuovo minaccioso. Gli investitori lo sanno e non chiedono un sovrappiù di rendimento, in altri termini lo spread non si alza, per lo meno non per questo motivo. E tuttavia l’Europa non può ridursi alla sua banca centrale. Di fronte a un evento estremo come la pandemia bisognava che le istituzioni europee esplicitamente politiche – la Commissione e il Parlamento europei – dessero un segnale di presenza, di utilità. Dopo aspri dibattiti anche venati di nazionalismo, si è scelto di concentrare le forze sulla ripresa, anziché sull’emergenza, lasciando il contrasto di quest’ultima sostanzialmente alla sola BCE. Per la ripresa è stato immaginato un grande fondo (Recovery Fund), peraltro ancora indefinito non solo nell’ammontare ma anche nelle modalità operative. Questo è il massimo che l’Europa possa fare, non essendo una federazione come gli Stati Uniti ma una semplice confederazione di stati indipendenti che, a parte un paio di eccezioni (moneta, concorrenza), conservano politiche nazionali, tutt’al più coordinandole, come è stato fatto per anni con quelle di bilancio. Ora, di fronte all’emergenza, molti vincoli sono stati allentati: come lei ricorda, quelli sulle banche e sugli aiuti di Stato alle imprese, oltre a quelli sulle politiche di bilancio. Per andare oltre occorrerebbe che tutti i paesi accettassero di cedere pezzi importanti di sovranità a Bruxelles. Nessuno è veramente pronto a farlo in questa fase storica, Italia, credo, inclusa”.
In Italia si profila anche un rafforzamento del Golden power per la messa in sicurezza delle imprese strategiche: qual è il suo giudizio e che riflessi avrà su Tim?
“Come dicevo prima, la tutela della concorrenza è stata in larga parte ceduta dagli Stati nazionali all’Europa. Nell’ambito di questa, il divieto di aiuti di Stato è da alcuni anni particolarmente coltivato dalla tecnocrazia di Bruxelles, con una estensione della definizione di aiuti pubblici a fattispecie francamente assai dubbie. Ne abbiamo avuto esempi preoccupanti proprio con le banche. Ma oggi spira in Europa il vento contrario, con una riscoperta dei campioni nazionali e una preoccupazione aumentata per le scalate straniere ad aziende considerate strategiche. La politica europea della concorrenza è stata per il momento praticamente sospesa. Molti paesi hanno rafforzato il potere dello Stato nazionale di entrare nel capitale di molte aziende e di tutelare quelle strategiche con il cosiddetto golden power. Oltre alla Francia, tradizionalmente sensibile al tema, lo ha fatto anche l’Italia. Credo che sia stato opportuno. La tutela della concorrenza è un interesse pubblico, ma anche la sicurezza nazionale lo è. Va trovato un equilibrio, non può esserci un interesse che prevale nettamente sull’altro. Inoltre, una sana concorrenza deve aversi sul mercato rilevante per ciascun settore, la cui estensione in alcuni casi abbraccia il mondo intero. Non abbandoniamo il mercato europeo e quelli nazionali alle grandissime aziende estere per una fede cieca nella religione dell’antitrust, alla fine controproducente per gli stessi consumatori. TIM è comunque pronta a uniformarsi alle regole stabilite”.
Più in generale che ruolo giocheranno le telecomunicazioni nell’auspicabile rilancio dell’economia italiana e Tim come sta gestendo l’emergenza?
“Stare a casa ha voluto dire per molti imparare a lavorare con gli smartphones, i tablets, i computer portatili, connettendosi l’uno con l’altro, e ciascuno con i dati necessari, via internet. La parola magica è diventata: connettività. Era una tendenza già in atto da tempo, l’emergenza da coronavirus l’ha enormemente accelerata. Questo salto in avanti ormai resterà, perché è in molti casi più efficiente lavorare così. Occorrerà connettività velocissima e disponibile a tutti, ma proprio a tutti. TIM ha dimostrato in questa emergenza di disporre di una rete fissa, quella che sopporta il grosso delle connessioni internet, in grado di reggere un quasi raddoppio del traffico in poche settimane! Quasi tutto lo smart working italiano è passato da lì, ma anche le video chiamate fra nonni e nipoti, o fra amici. Era evidentemente una rete ben fatta, che è stata ben gestita in tutti questi anni sin dai tempi della SIP fino ai giorni nostri con TIM. Rimane in Italia un digital divide, una disparità nell’uso delle tecnologie digitali che non è solo geografica ma anche generazionale e di conoscenza in generale. TIM sta già adoperandosi per contribuire a chiudere questo divario, fisicamente nelle aree territoriali più remote, ma anche con iniziative come Risorgimento Digitale e Maestri d’Italia. Tuttavia vuole e può fare di più. Possiamo chiudere il digital divide in Italia se ce lo si consente”.
L’emergenza provocata dal Coronavirus allontanerà o avvicinerà il sogno della rete unica per la banda ultralarga?
“Nel mondo post-emergenza il primo vantaggio competitivo per un’economia sarà l’infrastruttura di telecomunicazione del paese. Per l’Italia è un’occasione importante, da non sprecare. Un rete fissa unica non è un sogno, è una necessità, economica e tecnologica. Ma per gestirla ci vogliono capacità, competenze. TIM ce le ha e lo ha dimostrato”.