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Rossi (Banca d’Italia): rilanciare l’economia italiana è possibile

Riprendere il cammino delle riforme, investire nelle infrastrutture materiali e immateriali, modernizzare la Pa, spingere sull’innovazione e favorire la crescita dimensionale e l’internazionalizzazione delle imprese: sono le ricette che, secondo il Direttore Generale della Banca d’Italia, possono ridare slancio alla nostra economia – Ecco come

Rossi (Banca d’Italia): rilanciare l’economia italiana è possibile

“L’economia italiana ha prodotto l’anno scorso beni e servizi per oltre 1.700 miliardi di euro, collocandosi, per dimensione assoluta del suo PIL, al nono posto nel mondo. Ha scambiato beni e servizi con gli altri paesi per un valore totale di poco più di 1.000 miliardi, confermandosi molto aperta al commercio internazionale: il suo interscambio è il settimo del mondo. Esportiamo da sei anni più di quanto importiamo, il nostro indebitamento netto con l’estero è ormai prossimo ad azzerarsi, dopo aver raggiunto il 24 per cento nel corso del 2014. Siamo dunque ancora una grande economia, competitiva con le altre nazioni e potremmo esserlo molto di più” ma purtroppo “l’economia italiana ha da almeno vent’anni una malattia che si è cronicizzata: ha perso la capacità, che ha avuto per decenni, di svilupparsi con l’intensità necessaria a tenere il passo degli altri paesi con cui si confronta”. E’ quanto ha sostenuto il Direttore Generale della Banca d’Italia e presidente dell’Ivass, Salvatore Rossi intervenendo al Forum Annuale della Media Impresa Italiana.

“Nell’area dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che raggruppa i 36 paesi più avanzati del mondo, la crescita economica negli ultimi vent’anni – ha aggiunto Rossi – è stata in media del 70 per cento, in Italia del 10. Per spiegare questo divario non possiamo tirare in ballo considerazioni legate alla “domanda”, quella delle famiglie che consumano, degli imprenditori che investono, degli stranieri che comprano da noi. Non perché la domanda sia ininfluente, ma perché essa non ci aiuta a capire un fenomeno che dura da così tanto tempo e che ha attraversato varie oscillazioni del ciclo economico”.

Di conseguenza “è sulla “offerta” che va concentrata la nostra analisi, cioè sulla produzione, sulle condizioni in cui essa si svolge, sulle imprese che ne sono autrici. Le imprese naturalmente non vivono in un vuoto pneumatico, sono immerse in un ambiente umano e istituzionale fatto di lavoro, politica, leggi, regolamenti e tanto altro. Le loro capacità e le loro scelte ne sono influenzate, plasmate. Quell’ambiente è il terreno elettivo della politica. Ora, il ristagno della produzione ha una causa prevalente: da molto tempo l’efficienza, cioè la produttività, delle imprese e dei loro lavoratori, cresce da noi, quando cresce, molto più lentamente che negli altri paesi una misura ampia e generale di produttività, per quanto rozza, è il prodotto per abitante. Ebbene, negli ultimi venti anni questa grandezza è progredita in Italia, in media, di circa un decimo di punto percentuale all’anno. Nell’area dell’OCSE il prodotto per abitante è cresciuto a un tasso medio annuo pari a oltre dieci volte quello italiano, il che ci ha fatti scivolare nelle ultime posizioni di questa speciale graduatoria. Se scomponiamo la produttività nei suoi tre addendi principali – la quantità dei due fattori classici della produzione, lavoro e capitale, e la capacità delle imprese di combinarli efficientemente – scopriamo poi che il divario fra l’Italia e la media dei paesi OCSE nello sviluppo economico in questi vent’anni si spiega per quasi due terzi con le differenti dinamiche del terzo addendo, cioè della cosiddetta produttività totale dei fattori (PTF), la quale dipende dalle scelte tecnologiche e organizzative delle imprese”

Come se ne esce e che cosa si può fare per rilanciare l’Italia e la sua economia? Investire nel capitale umano, nell’innovazione tecnologica, nella infrastrutture materiali e immateriali (scuola, giustizia, Pa) ma favorire anche la crescita dimensionale delle imprese. “Dai dati e dall’evidenza storica – ha spiegato Rossi – emerge che le imprese italiane possono essere distinte in almeno tre classi, le quali, badiamo bene, prescindono del tutto dai settori merceologici di appartenenza. La prima è formata da quelle imprese che sono poco profittevoli e stentano a stare sul mercato nelle fasi di difficoltà, come è accaduto durante la recente, doppia recessione. Sono aziende tipicamente piccolissime o piccole, a gestione familiare, con una finanza fatta di debito bancario, che hanno scarsa attitudine all’innovazione e all’internazionalizzazione e un livello di capitale umano della forza lavoro piuttosto basso.

Sebbene possa attribuirsi loro tra il 60 e il 70 per cento degli addetti del settore privato, esse contribuiscono poco alla crescita del prodotto e dell’occupazione dell’economia italiana. Sul fronte opposto vi è una pattuglia di imprese di successo. Prevalentemente grandi o, soprattutto, medie, spesso (ma non solo) manifatturiere, esse hanno una struttura finanziaria robusta e diversificata, assumono lavoratori qualificati, pagano salari più elevati. Già prima della crisi hanno fronteggiato i mutamenti tecnologici e la globalizzazione degli scambi avviando profondi processi di ristrutturazione che le hanno rese moderne, competitive. Sono aziende che si collocano sulla frontiera tecnologica e dell’innovazione, investono nei prodotti della proprietà intellettuale, stanno sfruttando le nuove opportunità della digitalizzazione e della messa in rete del processo produttivo (internet delle cose).

Queste imprese hanno riportato la dinamica delle nostre esportazioni in linea con quella dei principali concorrenti europei, non solo espandendo le proprie vendite nei paesi dove già erano presenti ma anche conquistando nuovi mercati di sbocco. Molte di loro sono inserite in catene globali del valore, dove tipicamente si posizionano a metà tra le attività intangibili a monte (ricerca e design) e quelle a valle (assemblaggio, marketing e servizi).

Tra le imprese del primo gruppo, che non sono in grado di fornire contributi rilevanti alla crescita dell’economia, e quelle del secondo, che rappresentano la forza trainante del sistema produttivo, vi è un terzo gruppo di aziende che faticano a espandere il perimetro aziendale e la dimensione produttiva ma hanno il potenziale per farlo. Quel potenziale è rimasto finora in larga parte inespresso anche a causa dei numerosi vincoli all’attività economica che contraddistinguono il nostro paese.

La sorte dell’Italia – ha concluso il Direttore Generale della Banca d’Italia – si gioca sulla possibilità che un numero crescente di queste imprese navighi verso il gruppo di testa, piuttosto che scivolare verso quello di coda. Questo è il campo di intervento della politica” e delle politiche industriali.”L’economia italiana ha perso posizioni nel mondo avanzato negli scorsi vent’anni ma conserva molte frecce al suo arco. Può riprendere la via dello sviluppo economico e del benessere diffuso a patto che il suo sistema produttivo faccia un salto di qualità, con molte più imprese che vadano verso dimensioni e assetti organizzativi adatti a cavalcare l’onda tecnologica. Perché quelle imprese siano incentivate a farlo tutto il Paese deve dotarsi di infrastrutture moderne, materiali e soprattutto immateriali, a cominciare dal sistema giuridico. Questo è il grande compito della politica, insieme con quello di garantire che non vi siano parti della società perdenti senza rimedio nel gioco economico.

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