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Romney cambia pelle: voltafaccia moderato e il candidato repubblicano va in testa nei sondaggi

“Siamo abituati a vedere i politici cambiare la loro posizione rispetto a quattro anni fa, ma non siamo abituati a vederli cambiare idea in quattro giorni”. La battuta – parla Barack Obama – vale una sentenza, e concentra in poche righe il succo di questa campagna d’autunno per la Casa Bianca. Secondo Obama, lo sfidante repubblicano Mitt Romney, finora, ha bluffato, dipingendo se stesso come il leader centrista ed equilibrato di cui l’America ha bisogno per rialzare la testa.

Nelle sfide televisive, Romney ha effettivamente cambiato pelle: in politica estera ha sostanzialmente dato ragione al Presidente su Afghanistan, Siria e Libia. Tanto che – ironicamente – milioni di account Twitter, durante il dibattito, cinguettavano “l’endorsement di Romney a Obama”. Non meno significativi sono i punti di cauta convergenza sulla gestione interna. Sanità: Romney non ha avuto il coraggio di abolire l’obbligo di curare i pazienti nonostante le famigerate “condizioni preesistenti” (clausole su cui si fonda, spesso, la negazione di assistenza sanitaria da parte delle
assicurazioni private). In quanto a tasse, il governatore del Massachussets ha sostanzialmente scaricato l’ala estremista del Tea Party, ricredendosi sull’opportunità di abbassare l’imposizione sui ricchi.

In campo finanziario, il candidato del Grand Old Party ha addirittura rinunciato a demolire l’impianto della legge Dodd-Frank, additata da più parti (anche bipartisan, per la verità), come una sorta di moloch regolatorio incapace di mettere ordine nei mercati. Nemmeno su scuola, immigrazione, aborto, Romney è sembrato così distante. Anzi: la sua agenda in materia è apparsa a tratti indefinita, se non inesistente.
 
Ma la svolta centrista non ha convinto. Scrive Howard Kurtz sul Daily Beast: “questo non è il candidato che abbiamo osservato negli ultimi due anni. Se avesse corso (nelle primarie, ndr) come il “Mitt moderato”, come lo chiama Bill Clinton, non avrebbe avuto chance nella conquista della nomination repubblicana”.

E ora i responsabili della comunicazione di “Mitt il moderato” se la prendono con media e giornalisti, accusandoli di avere frainteso due anni di dichiarazioni al vetriolo. Ma non ci vuole un manuale di comunicazione politica per rendersi conto che il repentino voltafaccia ha ragioni politiche ben precise: una ripresa che stenta a dar segnali di rimbalzo è il miglior “asset” per chi tenta accaparrarsi il voto degli indecisi.

E qui, Romney ha rubato a Obama lo “scettro dell’equilibrio”. Fino alla scorsa estate, l’inquilino della Casa Bianca era abbastanza sicuro di risultare la “best choice” degli americani, garanzia di solidità e capacità di mediazione tra ali opposte del Congresso: basti pensare all’accordo dell’agosto 2011 sul limite all’indebitamento (un accordo tutto sommato subìto dal Presidente), alla strategia di basso profilo in Libia, alla scelta di optare per un modello di assistenza sanitaria basato ancora sulle strutture private (mentre Hillary Clinton, durante le primarie del 2008, proponeva un sistema più vicino al modello universalistico europeo, dove lo Stato paga interamente la spesa sanitaria).

Ma negli Usa anche la politica vive giorno per giorno, e la moderazione della Casa Bianca, che ha destato non poche proteste nell’ala liberal dei Democratici, non è più una risorsa spendibile in campagna elettorale. Non a caso Romney appare in risalita, e in una media dei sondaggi calcolata da Real Clear Politics risulta oggi in testa con il 48% delle preferenze, rispetto al 47,1 del Presidente.

Alcuni responsabili della comunicazione di Obama stanno già correndo ai ripari, suggerendogli di ricordare che – dopo tutto – molto a Washington è stato fatto. Un modo per dire che Obama è stato finora troppo remissivo, arrivando “scarico” al momento più importante. Dopo tutto, “l’econonomia di Obama ha fatto bene, date le circostanze”, titola oggi un editoriale di Martin Wolf sul Financial Times, a dimostrazione che la credibilità della Casa Bianca subirebbe un contraccolpo qualora vincesse il camaleontico Romney. Soprattutto in politica estera e nella capacità di interfacciarsi con l’altro gigante in crisi, quell’Europa assente dai dibattiti che però gioca un ruolo fondamentale anche nella ripresa statunitense.

In realtà, il programma dei due sfidanti è quanto mai indefinito: al piano da 12 milioni di “jobs” sbandierato da Romney, Obama ha risposto con un disegno di rilancio della manifattura di pari portata, oltre a idee per ridurre l’aumento dei costi universitari.

Ma la rigidità del bilancio pubblico, fondata sulle regole ferree che rischiano di far precipitare l’economia a stelle e strisce nel buio del “fiscal cliff”, difficilmente permetterà di giocare con il “deficit spending” per rilanciare consumi e occupazione. Qualunque sia il colore del prossimo Congresso.

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