L’11 settembre 1980 Cesare Romiti, amministratore delegato unico della Fiat, informa i segretari generali della Federazione Cgil-Cisl-Uil (Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto) che l’azienda avvierà nello stesso pomeriggio, per il tramite dell’Unione Industriale di Torino, la procedura di licenziamento collettivo per circa 14mila lavoratori degli stabilimenti piemontesi della Fiat Auto e della TEKSID.
Hanno così inizio i “35 giorni alla Fiat”, cioè lo scontro più duro dal secondo dopoguerra fra azienda e sindacato per decidere una volta per tutte il futuro del più grande gruppo industriale italiano. Succede quello che deve succedere. Si va allo scontro muro contro muro, finché Romiti gioca la carta della mobilitazione dei Quadri e Capi Fiat che diventa l’elemento risolutivo della vertenza.
I licenziamenti erano stati preannunciati da Umberto Agnelli, vicepresidente e uno dei due amministratori delegati della Fiat (l’altro era Romiti), che, in una intervista sulla Repubblica di sabato 21 giugno, aveva denunciato la gravità della situazione nelle sue fabbriche e, oltre alla svalutazione della lira, indicava la necessità, in dipendenza dell’aggravarsi della crisi mondiale dell’automobile, di ricorrere per il 1980 ed il 1981 a drastici tagli della produzione e conseguentemente ad interventi sugli organici mediante licenziamenti o forme che consentissero lo stesso risultato, come la mobilità esterna prevista dall’allora contratto nazionale metalmeccanico da azienda ad azienda.
Tale linea viene confermata agli inizi del mese di luglio sempre da Umberto Agnelli nell’incontro con i segretari generali Bentivogli, Galli e Mattina della allora FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), il potente sindacato unitario composto da Fim-Cisl, Fiom-Cgil-Uilm-Uil.
La FLM da subito interrompe “politicamente” qualsiasi trattativa con l’azienda, respingendo ogni discussione anche circa l’ipotesi contrattuale di mobilità esterna in sostituzione dei licenziamenti collettivi.
A fine luglio l’azienda, in risposta ad un invito del ministro dell’Industria Antonio Bisaglia, dichiara ufficialmente che non avrebbe assunto dei provvedimenti prima di settembre, pur confermandone l’assoluta necessità. Contemporaneamente Umberto Agnelli lascia gli incarichi operativi su richiesta di Enrico Cuccia di Mediobanca, preoccupato per i debiti del Gruppo Fiat, che ritiene necessaria una netta separazione tra azionisti e management. Per Cuccia la proprietà si deve limitare a fare l’azionista e Cesare Romiti, suo uomo di fiducia, diventa amministratore delegato unico del gruppo.
Alla ripresa post-feriale la Fiat, con Cesare Annibaldi, direttore delle Relazioni Industriali, e Carlo Callieri, direttore del personale di Fiat Auto, presentano al tavolo sindacale torinese un documento che riassume le ragioni per le quali si rende indispensabile una riduzione del 20% della capacità produttiva. Per contro emerge da subito da parte della FLM un atteggiamento di assoluta chiusura verso qualsiasi ipotesi di riduzione degli organici e la volontà di trasferire la trattativa da Torino a Roma, al Ministero del Lavoro.
I colloqui vengono interrotti e la Unione Industriale di Torino, in nome e per conto della Fiat, l’11 settembre farà partire la procedura, prevista dall’accordo interconfederale del 1965, di licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Dal giorno dopo iniziano le agitazioni con presidi sindacali ai cancelli e blocco degli impianti.
Per 35 giorni tutti gli stabilimenti piemontesi non solo della Fiat Auto e della Teksid, ma anche delle altre società come l’Iveco e la Marelli, vengono bloccati da picchetti sindacali durissimi che impediscono l’entrata di qualsiasi lavoratore, quadri, capi, impiegati, operai. Viene negato l’ingresso anche alla dirigenza tecnica, mettendo a grave rischio la sicurezza e la ripartenza delle linee di produzione, una volta conclusa la vertenza.
Con il passare dei giorni le agitazioni si estendono anche agli stabilimenti fuori Piemonte, come a Milano, Desio, Brescia, Modena, Firenze e Cassino. A supporto dei sindacalisti e degli attivisti torinesi arrivarono rinforzi da molte parti del Paese: per “picchettare” le 34 porte di Mirafiori 24 ore su 24, ad esempio, sono necessari manipoli di una cinquantina di persone per porta per coprire a rotazione i turni di 8-10 ore. Scatta una gara di solidarietà politica a sostegno della lotta sindacale contro la Fiat, impersonata ormai da Cesare Romiti.
Il Comune di Torino, retto da una giunta di sinistra, fornisce le transenne per rinforzare i picchetti ai cancelli della fabbrica, mentre l’azienda dei trasporti posteggia un autobus di fronte all’entrata principale della palazzina direzionale della Mirafiori che serve come ufficio stampa del sindacato, provvisto di fax e telefoni messi a disposizione dall’azienda telefonica.
Per la città ci sono blocchi stradali volanti con le richieste agli automobilisti di collette a favore degli operai in lotta, così come sui mezzi pubblici e ai mercati rionali. Sui cancelli compaiono anche le bandiere del sindacato polacco Solidarnosc accanto a quelle della FLM nella convinzione che “la Fiat molla o molla la Fiat” allo stesso modo che il mese prima, nell’agosto 1980, gli operai dei cantieri di Danzica, dopo un mese di scioperi, avevano piegato il governo alle loro richieste (con la differenza che in Polonia gli scioperi erano comunque retribuiti, non essendo ideologicamente previsto dal regime lo sciopero).
Diversi esponenti politici e sindacalisti nazionali (alcuni contestati, altri meno) si presentano ai cancelli della Mirafiori a sostenere le ragioni della lotta operaia: tra i tanti Giuliano Ferrara, allora capogruppo del PCI al consiglio comunale di Torino.
Nel contempo, al ministero del Lavoro proseguono gli incontri tra l’azienda, la cui delegazione era capeggiata da Romiti, e il sindacato, senza alcun passo in avanti sia per la ferma posizione aziendale di rifiuto a qualsiasi compromesso al ribasso, sia per i gravi contrasti interni tra le segreterie romane e le strutture piemontesi e torinesi più intransigenti.
Mercoledì 24 settembre, la vertenza passa al Presidente del Consiglio, il democristiano Francesco Cossiga, che fissa la riunione tra le parti per il venerdì successivo. Al mattino del 26 settembre, arriva a Torino il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, per incontrare i lavoratori ai cancelli degli stabilimenti di Rivalta, Lingotto e Mirafiori
Nel suo discorso nel piazzale antistante la Porta 5 della Palazzina Uffici di Mirafiori, Berlinguer, nel ribadire la linea di resistenza totale contro i licenziamenti della Fiat, arriva a dire ai presenti: “Se occupate la Fiat il Pci vi appoggerà”, come riportato dalla Repubblica del giorno successivo (affermazione peraltro smentita anni dopo da chi quel giorno era presente a fianco dello stesso Berlinguer).
Peraltro, la riunione prevista a Roma in quel pomeriggio per la presentazione delle soluzioni possibili da parte del Presidente del Consiglio non avviene, in quanto il Governo Cossiga è dimissionario dopo il rigetto della Legge Finanziaria da parte del Parlamento a scrutinio segreto.
La stessa sera, Cesare Romiti al TG1 annuncia che, in considerazione del “momento difficile della vita del Paese”, la Fiat sospende per tre mesi l’attuazione dei licenziamenti collettivi e ricorre alla cassa integrazione guadagni a zero ore senza rotazione per 23mila lavoratori dal successivo 6 ottobre.
Nonostante la sospensione dei licenziamenti, continuano i presidi e il blocco degli stabilimenti, in quanto il “consiglione” dei delegati Fiat, riunito in permanenza, decide di opporsi in ogni modo all’attuazione della cassa integrazione nei termini proposti dalla Fiat. Martedì 7 ottobre il presidente del Consiglio incaricato, Arnaldo Forlani, riceve al mattino i tre segretari confederali della Federazione Cgil-Cisl-Uil, e successivamente l’avvocato Agnelli e Cesare Romiti.
Nel pomeriggio Romiti, con Annibaldi e Callieri, riprende la trattativa sindacale al ministero del Lavoro, che si blocca nuovamente di fronte alla pregiudiziale del sindacato sull’utilizzo della cig a zero ore secondo le modalità, tempistiche e quantità proposte dall’azienda. Mentre il sindacato dichiara per il 10 ottobre lo sciopero generale a Torino, si verificano i primi tentativi di sfondamento dei picchetti da parte di Capi intermedi, impiegati e operai.
A Mirafiori Carrozzeria circa 200 capi sfondano un picchetto ed entrano in fabbrica avviando una linea di produzione della Fiat127, alle Meccaniche un gruppo di 150 operai e capi entrano in fabbrica forzando un picchetto con contusi da ambo le parti, di fronte la palazzina uffici dello stabilimento di Rivalta sfila un corteo di circa 2.000 lavoratori che chiedono la fine degli scioperi ed il rientro al lavoro.
Il 13 ottobre la Procura della Repubblica, sulla base di due esposti inoltrati dalla Fiat, invia 300 comunicazioni giudiziarie a partecipanti ai picchetti. L’ordinanza emessa dal sostituto Procuratore Bruno Tinti riconosce di fatto il diritto di chi vuole lavorare ad entrare in fabbrica.
Peraltro, è dai primi di ottobre che, su iniziativa dello stesso Romiti e di Callieri, il Coordinamento Quadri e Capi Intermedi Fiat si sta riunendo nella struttura aziendale di Ville Roddolo sulla precollina torinese per organizzare una riunione-assemblea generale di tutti i quadri e capi del Gruppo Fiat “per dimostrare che una classe che ha il solo torto di interpretare integralmente i principi democratici vuole finalmente urlare alle autorità latitanti e all’opinione pubblica il suo: basta!”.
La riunione viene organizzata per il 14 ottobre e si trasforma in un corteo di circa 40mila persone che sfila per le vie principali di Torino per protestare contro i picchetti e i presidi e chiedere di poter tornare a lavorare. Alle ore 18 dello stesso giorno riprende al ministero del Lavoro la trattativa: Lama, Carniti e Benvenuto dichiarano a Romiti che il sindacato è disponibile ad accettare la soluzione della vertenza proposta dall’azienda per di sottoporla l’indomani ai delegati e, poi, alle assemblee di fabbrica.
L’ipotesi di accordo sottoposto al “consiglione” dei delegati non è votata in considerazione del violento clima di opposizione e, quindi, rimessa alle assemblee. Il voto delle assemblee di fabbrica è caratterizzato da forti contrasti e episodi di violenza: vengono aggrediti i Segretari Confederali della Cgil-Cisl- Uil (in particolare Pierre Carniti alle Meccaniche) e duramente contestati i responsabili nazionali della FLM.
Le Confederazioni e la FLM valutano comunque che – anche se i risultati furono fortemente disomogenei – l’ipotesi di accordo deve ritenersi approvata. Nella notte di sabato 18 ottobre al Ministero del Lavoro Romiti sancisce la sua vittoria con la firma dell’accordo sindacale che prevede, a fronte del definitivo ritiro dei licenziamenti, la sospensione dal lavoro a zero ore senza rotazione di 23mila lavoratori con ricorso alla cassa integrazione guadagni straordinaria rinnovabile, inizialmente dal 6 ottobre 1980 al 31 dicembre 1981, e prorogata successivamente sino al 30 giugno 1983.
Con la chiusura della vertenza dei “35 giorni” la Fiat, grazie alla durezza di Romiti nella conduzione della trattativa sindacale, esce dal tunnel in cui era piombata negli anni 70, gli anni della conflittualità permanente e del terrorismo, ed affronta la ripresa dello sviluppo mediante il recupero di efficienza e di produttività del lavoro con l’eliminazione dell’eccedenza strutturale di organico ed il ripristino dei corretti rapporti civili in fabbrica.
Nell’aprile del 1997 molti di coloro che avevano partecipato alla marcia dei quarantamila si riunirono con altre migliaia di lavoratori Fiat nei piazzali del ex- stabilimento del Lingotto per manifestare silenziosamente la loro solidarietà al presidente del Gruppo Cesare Romiti a seguito della sua condanna per finanziamento illecito dei partiti nel filone Tangentopoli, solidarietà che gli espresse anche Enrico Cuccia rompendo la sua proverbiale riservatezza.