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Rogoff: l’inflazione ve la spiego con… gli scacchi

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Dagli scacchi all’economia

Kenneth Rogoff è stato una scacchista di rango mondiale. E anche come economista lo è, e forse di più: è senz’altro tra i 10 economisti più influenti e ascoltati al mondo. Growth in a Time of Debt, un suo contributo del 2013, scritto insieme alla collega Carmen Reinhart, è stato il documento più discusso, anche per i suoi errori, in quegli anni di crisi del debito sovrano. Sosteneva la tesi che, quando il debito pubblico di un paese supera il 90% del PIL, non c’è scampo alla recessione.

Oggi Rogoff insegna economia ad Harvard, dopo essere passato da Princeton e dal fondo Monetario Internazionale come economista capo.

Oggi siede nel consiglio di amministrazione della FED ed è uno dei membri del Gruppo dei 30, una sorta di club di banchieri ed economisti al vertice, promosso nel 1978 dalla Rockefeller Foundation. Ne fa parte anche Mario Draghi come membro senior.

Sul “Financial Times” del 16 luglio Rogoff è intervenuto sul tema del momento: l’inflazione. E naturalmente lo ha fatto a modo suo, da scacchista, con una mossa a sorpresa. In effetti quando, raramente, mi sono imbattuto in un contributo di Rogoff, ho percepito un pensiero strategico che porta la discussione su un piano differente. C’è lo scacchista. Ma forse è solo suggestione.

Di seguito la traduzione in italiano dell’articolo dal titolo: Don’t panic: a little inflation is no bad thing.

Una importante ala del Partito democratico di Biden condivide l’analisi di Rogoff. Non si può certo dire che Rogoff graviti in quella area politica.

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Una buona notizia

Una modesta crescita dell’inflazione in una fase post-pandemica non è necessariamente una cosa negativa. Con gli Stati Uniti che sperimentano un’inflazione piuttosto vivace (+5,4 per cento nei 12 mesi terminati a giugno), si parla sempre più di un Armageddon dell’inflazione se la Federal Reserve non interviene in tempo.

Armageddon no, ma ci sono rischi reali. Forse, però, dopo un decennio di inflazione al di sotto del target, alcuni anni di inflazione leggermente al di sopra del target, diciamo il 3%, l’attuale crescita potrebbero essere una cosa positiva.

L’inflazione negli USA oggi è molto più una buona che una cattiva notizia. I prezzi stanno salendo principalmente perché l’economia sta facendo molto meglio di quanto sembrasse possibile un anno fa — grazie al tempestivo e aggressivo acquisto di vaccini da parte del governo, al continuo e sostanzioso sostegno macroeconomico e al sorprendente successo della transizione al lavoro a distanza.

La ragione dei colli di bottiglia

Il fatto che ci siano un sacco di colli di bottiglia di tutti i tipi non è affatto una sorpresa. L’anno scorso, Hertz, la compagnia di noleggio auto, ha dichiarato bancarotta; quest’anno, con la gente che vuole viaggiare di nuovo, le tariffe delle auto a noleggio sono schizzate. Con la fine della quarantena, tutti improvvisamente vogliono mettere mano alla manutenzione e ai miglioramenti delle loro abitazioni.

Ci sono tempi di attesa estremamente lunghi per frigoriferi e lavatrici, anche se i loro prezzi sono aumentati considerevolmente. Il mercato del lavoro è compresso, la crescita dei salari è forte e probabilmente diverrà ancora più sostenuta.

Ci sentiremmo più sollevati se l’economia fosse molto più debole e l’inflazione più bassa? No di certo!

L’inflazione sostenuta può essere un rischio mentre viene fatta riemergere dalla fossa della crisi più profonda dai tempi della Grande Depressione.

Ma una battuta d’arresto inaspettata nella lotta contro la pandemia è un rischio maggiore.

Il rischio maggiore è la pandemia

In gran parte degli Stati Uniti, c’è la palpabile sensazione che la pandemia sia finita. Ma questa è una visione molto campanilistica.

È vero, negli Stati Uniti, praticamente tutti quelli che desideravano essere vaccinati lo sono stati; la stragrande maggioranza dei non vaccinati ha semplicemente scelto di non farlo. Non chiedetemi perché.

Eppure la pandemia è tutt’altro che finita. I due terzi della popolazione mondiale, che non vivono in un’economia avanzata o in Cina, sono in condizioni terribili. Possono solo desiderare che la loro più grande preoccupazione diventi l’inflazione, anche se in paesi come l’Argentina dove è completamente fuori controllo.

La crisi del 2008

Nel 2008, quando si è sviluppata la crisi finanziaria, ho sostenuto con vigore che le banche centrali avrebbero dovuto allentare i loro obiettivi di inflazione del 2% e puntare, per qualche anno, a un’inflazione del 4–6%.

Se si fossero mosse rapidamente e avessero adottato efficaci politiche di tassi d’interesse negativi, credo che questo obiettivo sarebbe stato possibile. Un’inflazione più alta per qualche anno avrebbe aiutato a stimolare la domanda e a ridurre l’insostenibile peso del debito di molti paesi.

Una politica alternativa, la migliore, sarebbe stata quella di svalutare i debiti dei mutui subprime negli Stati Uniti e fare trasferimenti incondizionati dal Nord Europa per pagare le svalutazioni del debito pubblico nei paesi periferici come Grecia e Portogallo.

Oggi è diverso

Oggi la situazione è differente. Grazie al Tesoro degli Stati Uniti e alla Fed, che sono intervenuti così rapidamente e proattivamente, nel 2020 ci sono stati meno fallimenti aziendali che nel 2019. Dato che i fallimenti generalmente aumentano bruscamente nelle recessioni, questo è una notizia veramente buona.

Ma anche con i problemi del debito, ci sono dei benefici da un’inflazione temporaneamente più alta. Il più importante è che la Fed ha bisogno di permettere all’inflazione di salire sopra il target — se fa davvero sul serio quando dice di puntare al 2% come media.

Molti hanno cominciato a chiedersi se questo sia possibile. Dopo la siccità dell’inflazione dell’ultimo decennio, un leggero acquazzone porta un po’ di ristoro.

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Rendere l’obiettivo di inflazione della Fed più credibile aiuterebbe a spostare verso l’alto la struttura a termine dei tassi di interesse e dargli più spazio per tagliarli in futuro.

Qual è l’inflazione giusta?

In realtà, la teoria economica dà poche indicazioni valide sul fatto che, per esempio, un’inflazione al 3% sia meglio che una al 2% in tempi normali, purché rimanga ragionevolmente stabile e

prevedibile. Quando Olivier Blanchard era capo economista del FMI nel 2010, sosteneva che gli obiettivi di inflazione dovevano essere portati al 4%.

Un’inflazione al 3% offrirebbe anche l’opportunità di riconsiderare l’attuale obiettivo del 2% della Fed.

Questa non è certo un’idea radicale: alcune banche centrali come l’Australia e l’Ungheria hanno già un obiettivo di inflazione più alto e altre come la Banca del Canada stanno considerando l’idea. È vero, come ho a lungo sostenuto, che un modo molto più elegante per dare alle banche centrali un maggiore spazio per tagliare i tassi in una profonda recessione è quello di porre le basi per una politica di tassi negativi senza vincoli. Ma questo argomento lo lascio ad un’altra volta.

Ci sono anche effetti collaterali

Ho messo in evidenza gli aspetti positivi di un’inflazione moderatamente più alta per alcuni anni. Ma ci sono pure dei rischi. Il più grande è che l’espansione a tempo indeterminato della spesa pubblica e dei trasferimenti non sia sostanzialmente (non è necessario che sia completamente) compensata da un gettito fiscale più alto.

Se il costo globale del prestito dovesse aumentare in modo considerevole, il costo più alto del maggior carico di debito potrebbe portare a pressioni del governo sulla banca centrale per mantenere bassi i tassi nominali — rischiando un’inflazione che alla fine diventerebbe seria.

Per il momento, i mercati non sembrano affatto preoccupati — quasi troppo, data la pervasiva incertezza che circonda l’economia globale mentre emerge dalla pandemia.

Eppure, almeno per ora, un’inflazione leggermente elevata è indice che le cose stanno andando bene e che non siamo condannati a una bassa crescita.

Non c’è motivo per la Fed di schiacciarla troppo in fretta.

Da Kenneth Rogoff, Don’t panic: a little inflation is no bad thing, “The Financial Times”, 16 luglio 2021

Categories: Economia e Imprese