La versione beta è stata appena presentata agli azionisti e ora si attende l’autorizzazione della Banca d’Italia che dovrebbe arrivare a breve. La piattaforma digitale di credito per le Pmi ideata da Ignazio Rocco di Torrepadula, ex consulente di Boston Consulting Group, è pronta per sbarcare sul mercato a settembre. L’ultimo tassello che manca è solo i nome che, anticipa a FIRSTonline Rocco di Torrepadula, sarà annunciato “a breve, prima dell’estate, probabilmente insieme all’autorizzazione di Banca d’Italia e alle partnership” spiegando che “sarà un nome italiano” ma con “una radice latina che lo renderà comprensibile e familiare anche all’estero”.
Tra factoring e peer to peer lending, dove vi posizionate?
Siamo un digital lender. Il nostro modello è simile al sistema inglese della invoice factoring che utilizza parte della legislazione del factoring e parte della legislazione sulle cartolarizzazioni. Non siamo un peer to peer lending perché i finanziamenti li cediamo a investitori istituzionali e non li facciamo sottoscrivere da privati né li mettiamo all’asta. Non facciamo neanche factoring nell’eccezione corrente in Italia del termine perché non facciamo cessione di crediti in blocco e non abbiamo le relative clausole, però da noi l’azienda può cedere la singola fattura commerciale, attraverso una cessione pro solvendo. Siamo un unicum. Per le aziende è molto semplice: basta presentare la fattura sull’interfaccia digitale senza altri documenti e nel giro di poche ore si ottiene una risposta e una quotazione, senza impegno. Nel caso si verifichi la transazione, noi percepiamo una commissione di originazione.
Chi sono gli investitori a cui venderete i crediti?
Sono fondi in parte italiani e in parte internazionali. Anche grandi fondi Ucits che hanno un 5-10% di possibilità di acquistare prodotti considerati tecnicamente non liquidi. Oppure fondi chiusi e gli stessi fondi di minibond. Al momento siamo in discussione con cinque fondi italiani. E’ da tenere presente che noi cartolarizziamo crediti semplici e con basso rischio, si tratta di crediti commerciali, e per questo i rendimenti sono commisurati al profilo di rischio, attorno al 3-4% annuo. Le nostre cartolarizzazioni non saranno tranched, i crediti vengono bilanciati in un unico portafoglio per avere una sola classe di rischio per tutti gli investitori. Inoltre, teniamo per noi il 5% del portafoglio, assumendoci quindi lo stesso rischio che vendiamo.
Come nasce l’idea?
Quando ancora lavoravo come consulente in Boston Consulting Group, dove mi occupavo di banche, riflettevo su quello che mi avrebbe fatto piacere fare nei prossimi dieci anni. Mi sono interessato al fintech, all’inizio in ottica di investitore, come angel.
Poi ho pensato di creare direttamente un’azienda fintech in Italia nel credito su base digitale. Si tratta di un mercato molto grande. Ho adattato sul mercato italiano e sul sistema delle Pmi quello che avevo visto a San Francisco, New York e Londra, applicando alcuni cambiamenti. A partire dal target di riferimento che all’estero sono soprattutto i privati, con la diffusione del peer to peer lending. Ma ho preferito creare un modello che portasse credito alle imprese: da un lato il nostro modello è più veloce perché non deve cercare finanziatori, ci sono già i fondi che acquistano i crediti; dall’altro preferisco che i finanziatori siano professionali.Ho perplessità sull’opportunità e sul rischio che i privati diventino finanziatori. Penso che non si possa applicare facilmente il paradigma della sharing economy alla finanza. I prodotti finanziari, rispetto a Uber o Airbnb sono più difficili da valutare per l’utente finale.
Quando il lancio sul mercato?
Rientriamo nella normativa degli intermediari finanziari e siamo in attesa dell’autorizzazione da Banca d’Italia che dovrebbe arrivare a breve nelle prossime settimane. Inizieremo ad operare a settembre. Il prodotto è quasi pronto, lo abbiamo appena presentato in fase beta agli azionisti. Abbiamo preparato le partnership con gli asset manager e stiamo lavorando su quelle commerciali. Oltre al prodotto sul mercato aperto, abbiamo preparato anche una seconda versione che si rivolge alla grande azienda che paga tanti piccoli fornitori. Noi compriamo i debiti del piccolo fornitore nei confronti della grande azienda, nella logica del reverse factoring, ma facendo leva su un’infrastruttura completamente digitale e finanziando anche singole fatture.
A che punto è l’espansione del fintech in Italia?
Le start up del settore finanziario sono diverse dal settore dei giochi e dei media. Si tratta di un ambito fortemente regolato e servono capitali importanti, altrimenti è difficile. Anche solo per essere autorizzati da Banca d’Italia e Consob non bastano due giovani e venti mila euro, serve un misto di innovazione tecnologica, persone giovani e pizzico di esperienza e capitali. Detto questo, l’Italia è il Paese del cinismo, fa parte del dna gloriarsi del fatto che le startup vanno male. Non si può avere un tessuto di startup senza accettare che nove su dieci hanno difficoltà.
E le banche stanno comprendendo il cambiamento in atto?
Le banche stanno capendo. Tra due o tre anni avranno incorporato tutte queste tecnologie. Così come hanno sempre incorporato tante cose, negli anni ’90 si diceva per esempio che sarebbero nate le banche telefoniche. L’innovazione è stata invece incorporata dalle banche esistenti. Le banche internazionali più avanzate hanno in genere una watch list interna di tutte le start up del mondo che potrebbero acquisire. secondo la logica della open innovation: alcune cose è meglio se vengono pensate da team esterni.
Quali le aree di applicazione del fintech italiano?
In Italia riteniamo che il settore del lending avrà un grande cambiamento, poi ci sono i robot advisor che penetreranno nel mondo dei promotori e consulenti bancari ma anche assicurativi. Infine, il mondo dei pagamenti cambierà con l’accelerazione fornita dal mobile, pensiamo a Satispay. Il fatto che gli italiani sono scarsi utilizzatori di carte non deve trarre in inganno ed essere letto come scarsa digitalizzazione, con il mobile assisteremo a un cambio di marcia.
Google e gli altri colossi del web saranno sempre più concorrenti delle banche?
Sono già concorrenti. Se si guada alla divisione di Alibaba sui servizi finanziari, Ant Financial Sevices, i mobile payment hanno oltre 400 milioni di clienti, il fondo money market oltre 98 miliardi di dollari di asset e il digital lending è piuttosto grande. Ant Financial Services è di fatto la più grande società di fintech al mondo e crescerà su tutti i mercati emergenti che sono i più veloci in questo settore. In Cina, per esempio, è questione di supplire al mercato bancario tradizionale che non c’è. Tuttavia, io metto un punto di domanda sul fatto che Google, Facebook o Amazon diventino reali concorrenti del mercato bancario sui mercati occidentali. In questo settore c’è molta regolamentazione e questi colossi tendono a scremare il valore senza prendersi troppi oneri.
A livello di tecnologia, InstaPartners su cosa fa leva?
Abbiamo un approccio doppio al rischio credito. Inizieremo usando l’analisi tradizionale, semplicemente automatizzando molto i processi. In parallelo avvieremo a sperimentare variabili diverse e abbiamo anche già una persona dedicata, un analista di Big Data, che inizierà a testarle. In futuro useremo quindi anche i Big Data anche se bisogna non mitizzarli troppo sul credito. Molte start up li usano ma nessuno ha ancora dimostrato che hanno robustezza statistica.
Tra i vostri azionisti avete nomi di peso dell’imprenditoria italiana, quali le motivazioni di questa scommessa?
Tutti hanno visto in questa iniziativa un’azienda che si rivolge a un grosso mercato in Italia, un prodotto che se funziona bene può risolvere un problema, quello del credito, ed essere anche un affare. Inoltre, c’è chi ha visto un qualcosa che potrebbe essere utile anche alle loro attività imprenditoriali, rendendo così possibile la realizzazione di qualcosa che non c’era ma che potrebbe servire direttamente.
E il nome?
Lo annunceremo a breve, prima dell’estate, probabilmente insieme all’autorizzazione di Banca d’Italia e alle partnership. Sarà un nome italiano, non vogliamo usare un nome inglese come spesso si fa nel fintech, vogliamo infatti parlare alle Pmi italiane, ma con una radice latina che lo renderà comprensibile e familiare anche all’estero.