Nell’ambito della “Milano Digital Week la Fondazione Silvio Tronchetti Provera ha organizzato un panel sull’impatto che la rivoluzione digitale avrà sempre più sul mondo del lavoro, con la genesi di nuove figure professionali e di conseguenza l’urgenza di preparare il Paese e i giovani alle nuove esigenze di un mercato delle professioni che cambia con una velocità inimmaginabile solo qualche decennio prima. Coinvolti nell’avanzata dell’era digitale e quindi a rischio sono nel mondo trilioni di dollari salari. Una cifra che Alberto Sangiovanni Vincentelli della Berkeley University cita ricordando i risultati di un recente rapporto della McKinsey: “A future that works: automation, employment and productivity” che ha preso in esame 800 professioni, praticamente quelle svolte dall’80% derlla forza lavoro mondiale. Le conclusioni sono impressionanti: se automatizzabili completamente sono solo il 5%, nel 60% dei casi lo sono almeno per il 30% delle attività.
Sono dati tutti da verificare ma quel che più colpisce, oltre alla dimensione del fenomeno, è la velocità del cambiamento imposto dalla digitalizzazione che rischia di spiazzare le professioni senza valore aggiunto. Che la tecnologia nell’arco di cent’anni potesse essere il fattore di disintermediazione di tante professioni e di creazione di altrettante nuove l’aveva previsto fin dagli anni Trenta del secolo scorso lo stesso Keynes: è quello che puntualmente sta avvenendo oggi ma sarebbe drammatico se dovesse scoppiare una sorta di guerra tra l’uomo e i robot. La cronaca ci dice che sono già avvenuti episodi di protesta popolare con distruzione di macchine automatizzate, accusate di sottrarre posti di lavoro. E’ fuori luogo immaginarsi in futuro una “robotcalipse”, sotto la spinta di masse espulse dal lavoro ma i Governi devono fare la loro parte nel campo dell’istruzione incentivando gli studi di fisica e matematica che sono la base delle intelligenze artificiali,“come avviene – sottolinea Sangiovanni Vincentelli – alla Berkeley University dove un giovane laureato può essere subito assunto con uno stipendio iniziale di 160mila dollari all’anno.
Ogni Paese è a un bivio, in particolare uno come l’Italia. Se il processo di digitalizzazione è lento, è più facile per un territorio assorbire gli impatti negativi sull’occupazione, ma d’altra parte per le sue imprese sale il rischio di perdere competitività: per evitare la disoccupazione causata dalla tecnologia si rischia la disoccupazione da “non competitività”. L’elemento critico è quindi la capacità del sistema di favorire la nascita di nuove imprese. Nelle tre precedenti rivoluzioni industriali buona parte dell’occupazione è nata nelle nuove imprese. Ogni anno negli Usa, secondo i dati della Kauffman Foundation, un milione e mezzo di posti di lavoro sono creati da aziende nate da meno di 12 mesi, e il 95% dei posti da aziende con meno di 5 anni di vita.
Anche per Francesco Giavazzi dell’Università Bocconi l’istruzione è la chiave per rendere meno traumatica sul piano sociale la rivoluzione digitale in atto che sta creando un solco sempre più ampio tra professioni ad alto contenuto aggiunto e come tali ben remunerate e quelle tradizionali sempre più mal pagate e precarie. “Il caso degli Stati Uniti è esemplare: a inizio del secolo scorso la forza lavoro non superava il 52% mentre oggi è attorno al 70%: vuol dire che il digitale crea tante nuove opportunità senza però uccidere le vecchie mansioni, come sostengono in tanti. Ma all’interno di quel 70% c’è una larga fetta di popolazione sottopagata che non può spendere e quindi non consuma. Ecco perché gli Usa hanno un debito alle stelle e un’inflazione bassa malgrado l’alta occupazione”. Una disparità, effetto del rapido successo del digitale, alla quale gli Stati Uniti non hanno saputo finora trovare rimedio come invece fecero a inizio del secolo scorso quando l’intero Paese da agricolo divenne la locomotiva dell’industria mondiale grazie all’introduzione dell’istruzione obbligatoria fino a 16 anni. “Anche la Bocconi si è dovuta adeguare ai nuovi tempi – dice Giavazzi – tanto è vero che più che economia oggi si insegna soprattutto programmazione” e il suo nuovo linguaggio dinamico è Python, così chiamato dal suo creatore nel 1991, l’olandese Guido van Rossum, programmatore oggi operativo in Dropbox.
In particolare Giuseppe Testa dell’Università Statale di Milano ha posto in risalto gli straordinari risultati ottenuti dal matrimonio tra digitale e la medicina ripercorrendo la storia del genoma umano. La cui decodificazione è stata per la prima volta completata una decina di anni fa al termine di un ventennale programma di ricerche costato una ventina di miliardi di dollari mentre oggi con circa 1400 euro ognuno può ottenere la digitalizzazione del suo genoma. Un successo che se pone sempre più l’urgenza di rivedere la professione di biologo, apre spazi immensi per la creazione di nuove figure che Testa ha chiamato i “nuovi mediatori del vivente”. Un progresso esponenziale che solo all’alba del nuovo millennio nessuno poteva immaginare, nemmeno tra i più ottimisti sui miracolosi effetti che avrebbe prodotto lo sviluppo della tecnologia digitale. Una previsione di moda allora, quando ancora Google era poco più che una start-up, era che con l’avvento di pc e cellulari tutti avrebbero potuto in futuro lavorare in ogni posto del globo, ovunque si trovassero. La realtà di oggi – secondo Nicola Zanardi dell’Università Bicocca di Milano – ci dice invece che la grande tecnologia ha scelto di concentrarsi nelle “super-città” sempre più in competizione tra loro per attrarre le nuove professioni. Le città sono infatti territorialmente appena il 3% della superficie terrestre ma producono il 70% del Pil mondiale.