Manca un mese e mezzo al giro di boa, ma si può anticipare senza tema di smentite che il 2021 sarà ricordato come l’anno dei record per il risparmio gestito. Più per i gestori che per i clienti, visto che, ancora una volta, i costi a carico dei risparmiatori si rivelano assai superiori a quelli praticati dall’industria degli altri Paesi. Nei primi nove mesi dell’anno, gli strumenti che le prime dieci Sgr del nostro Paese hanno collocato presso i risparmiatori si sono infatti visti applicare in media oneri ricorrenti pari all’1,46%, di gran lunga superiore allo 0,96% delle top 30 del Vecchio Continente.
Il dato, ricavato dal rapporto periodico sul risparmio gestito promosso da Tosetti Value, il più importante family office italiano, non rappresenta certo una novità per gli addetti ai lavori, ma colpisce perché arriva al culmine di una stagione molto fortunata per quest’attività, che ormai nei bilanci bancari spesso vale più della tradizionale attività del credito.
RISULTATI RECORD
I dati di ottobre in arrivo in questi giorni confermano le eccellenti performance messe a segno nei primi nove mesi quando il patrimonio complessivo aveva raggiunto quota 2.561 miliardi grazie ad una forte accelerazione a partire da agosto (oltre 9 miliardi il saldo positivo, il miglior agosto dal 2014). Primati che vengono demoliti giorno dopo giorno grazie alla combinazione tra la raccolta (in forte crescita) e le performance di mercato assicurate dal buon andamento dei mercati. La squadra di Banca Intesa (Fideuram, Intesa San Paolo Private Banking), ad esempio, chiude settembre con masse amministrate in crescita (+9% a 330,9 miliardi) sia grazie alla raccolta netta (+35%) che alla performance di mercato che ha contribuito con altri 15,3 miliardi alla crescita del patrimonio.
Intanto, i record assoluti in Piazza Affari di Banca Generali e Fineco stanno a testimoniare la fiducia dei mercati per le prospettive degli altri Big del mercato. E lo stesso vale per Azimut e Banca Mediolanum che ad ottobre ha sfiorato il miliardo di raccolta (994 milioni). Per quest’ultima Intermonte si spinge a prevedere un andamento superiore alle attese delle commissioni di performance a fine 2021 superiore alle stime: “attualmente ci aspettiamo 115 milioni di performance fees nel secondo semestre 2021 si legge – ma potrebbero essere superiori a 200 milioni”.
MA IL CONTO LO PAGA IL CLIENTE
Troppa grazia. Di fronte a certi numeri ed al confronto con i vicini sorge il legittimo sospetto che a pagare il conto siano i risparmiatori caricati di costi superiori alla media. Ma da che dipende il fenomeno? Secondo Tosetti Value, ci sarebbero innanzitutto alcuni elementi strutturali del settore. In particolare “le dimensioni relativamente ridotte non consentono loro di raggiungere le necessarie economie di scala, che permetterebbero di ampliare l’offerta in modo efficace ai fondi passivi, per natura gravati da costi più bassi, e di essere presentì con squadre d’investimento e tecnologia in tutte le aree geografiche e settori attraverso risorse proprie”.
ETF, L’OCCASIONE PERDUTA
Causa le dimensioni ridotte rispetto ai Big alla BlackRock o Lyxor, il sistema del gestito italiano non partecipa al boom degli Etf, il settore più dinamico con un mercato che a livello globale a metà 2021 valeva ormai 9mila miliardi di dollari contro gli appena mille miliardi del 2010. Ma i player italiani sono totalmente assenti da quella che di fatto è
al momento l’area di gran lunga più dinamica dell’asset management. «È un segmento caratterizzato da fortissima competizione di prezzo basata su economie di scala, che ormai sembra possano essere raggiunte solo da un numero ristretto di attori globali», nota Tosetti Value. Un treno che l’Italia ha evidentemente perso da tempo.
COMMISSIONI CONTI CORRENTI E NO
Le dimensioni non sono però né l’unica né la principale ragione dei maggiori costi per i risparmiatori. Il sistema di remunerazione della rete di collocamento, spesso con premi di ingaggio per i promotori più produttivi degni del mondo del pallone (caratteristica non solo italiana, visto che il miglior venditore di BlackRock guadagna assai di più di Larry Fink), ha il suo peso in termini di sottrazione di redditività dell’investimento.
Inoltre, gli strumenti a disposizione dei risparmiatori continuano a essere zavorrati da commissioni ricorrenti ben superiori. In genere il costo “facciale” del prodotto racchiude impropriamente gli oneri sostenuti dall’investitore per la consulenza ricevuta per la sottoscrizione di quel prodotto. In sostanza finora si è pagato anche per il collocamento del fondo, un costo la cui dimensione non è conosciuta dal sottoscrittore e che va a gravare anno dopo anno sul valore dell’investimento.
Le cose dovrebbero cambiare con l’entrata in vigore di nuove norme sulle commissioni di performance, definite da ESMA (European Securities and Markets Authorities), l’organismo europeo dove sono rappresentati i guardiani dei mercati finanziari, come la Consob.
Completa il quadro la preferenza per le obbligazioni rispetto alle azioni. Una scelta sbagliata, motivata da una malintesa ricerca di sicurezza da parte dei clienti che il sistema del gestito non è riuscito a correggere in questi anni. Ancor oggi in Italia i portafogli della clientela sono esposti ai mercati azionari per il 20,5% contro il 47,6% del campione europeo esaminato da Tosetti Value. Il risultato è quel mezzo punto percentuale di costi in più su un patrimonio che supera largamente i 2.500 miliardi.