Paginate di roba scritta con un linguaggio noioso, complesso, piene di sigle indecifrabili. L’effetto sui coraggiosi che si avventurano nella lettura è soporifero. Questa, in breve, è l’opinione di gran parte dei risparmiatori sui documenti informativi che accompagnano i prodotti finanziari.
La sensazione è di essere soli nella scelta, oppure di essere nelle mani del proprio consulente finanziario o dell’impiegato della banca, senza una vera possibilità di informarsi in modo autonomo, di essere consapevoli di ciò che si sta per fare.
In verità non è proprio così: la documentazione fornita prima dell’investimento, seppur poco avvincente, contiene informazioni preziose per capire che tipo di prodotto si ha di fronte. Basta saperle trovare.
Tutto diventa più semplice con l’entrata in vigore della MiFID II: la nuova normativa (acronimo di Markets in Financial Instruments Directive) nasce proprio con l’obiettivo di tutelare maggiormente i risparmiatori, offrendo (tra le altre cose) prospetti più chiari e semplici da leggere, trasparenti sui costi.
E poi ci siamo noi, che vi mettiamo a disposizione una guida pratica per orientarvi tra gli investimenti, inclusa la lettura dei documenti essenziali, passando in rassegna le voci più importanti per gli investitori (per semplicità ci concentriamo sui prospetti dei fondi comuni di investimento, ma il discorso non cambia granché per polizze unit-linked e altri prodotti finanziari analoghi).
IN PRINCIPIO ERA IL QUESTIONARIO MIFID
“Valutazione di adeguatezza e appropriatezza”: roba misteriosa. E allora usiamo parole semplici, lasciando stare i tecnicismi: significa che la banca, o il consulente finanziario, vi fanno compilare un questionario – l’ormai celebre Questionario MiFID e vi prendono le misure.
Elaborando le vostre risposte vi fanno un ritratto finanziario: conoscete abbastanza l’investimento che avete di fronte? Sapete realmente ciò che state facendo? Che obiettivi avete? Che durata (detta aulicamente “orizzonte temporale”) dovrebbe avere l’investimento? Quanto rischio potete sopportare?
In sostanza, la differenza tra appropriatezza ed adeguatezza è:
- la valutazione d’appropriatezza serve per sincerarsi che abbiate compreso i rischi e la complessità associati all’investimento, e che abbiate l’esperienza e la consapevolezza necessari per farlo;
- la valutazione di adeguatezza è più completa, perché include gli aspetti precedenti, appurando anche che l’investimento sia allineato ai vostri obiettivi, alla vostra capacità di sopportare i rischi e al vostro orizzonte temporale.
La valutazione di appropriatezza entra in gioco per lo più quando in autonomia effettuate operazioni di compravendita su strumenti finanziari (fondi, ETF, unit-linked, azioni, obbligazioni, e via dicendo). La valutazione di adeguatezza è necessaria quando l’investimento è effettuato nell’ambito di un rapporto di consulenza finanziaria.
La valutazione di appropriatezza/adeguatezza definisce il vostro campo da gioco: se un investimento non è appropriato o adeguato, a seconda dei casi, voi non potrete acquistarlo (almeno in teoria).
In ogni caso, si tratta di punti sostanziali, prima che di obblighi di legge. Speriamo che questo sia chiaro, perché l’intermediario vi sta dando una sua valutazione, che potrà essere più o meno ben fatta, ma in ogni caso costituisce un punto di partenza.
QUANTO RISCHIO (ATTESO) VOGLIO ASSUMERMI?
Magari la valutazione d’adeguatezza dice che potete assumere rischi da stuntman. Tuttavia non è detto che lo vogliate fare. Quindi è bene farsi un’idea del rischio che andrete a sopportare con un dato investimento, per poter decidere il da farsi.
Potete utilizzare molte metriche, ma probabilmente quella che avrete immediatamente sottomano è quella del KIID, documento che dovranno obbligatoriamente consegnarvi. Il KIID è vostro amico: contiene un sacco di informazioni chiave, e molto sintetiche, sull’investimento. Tra le quali il rischio, su una scala numerica da 1 a 7. La stima del rischio si basa su dati storici – non una garanzia per il futuro ma, sul lungo termine, aiuta comunque a farsi un’idea.
Sia chiaro: se non si assumono rischi, non si guadagna. Voi dovete capire quanto rischio siete disposti a sopportare, con onestà e attenzione, perché l’emotività gioca brutti scherzi.
Per dire, se vi viene l’ansia alla sola idea di perdere il 2% del capitale investito, forse è meglio lasciar perdere un fondo aggressivo e orientarsi su un prodotto con un livello di rischio contenuto, magari anche se la profilazione dice diversamente. Senza però poi lamentarsi se le performance del proprio investimento si rivelano modeste.
HO DAVVERO BISOGNO DEI DIVIDENDI?
Alcuni fondi distribuiscono dividendi (proventi del fondo), altri no, li reinvestono. Spesso lo stesso fondo (o ETF) ha due versioni: con e senza proventi. Quale scegliere?
Molto dipende dalla fase della vita in cui ci si trova. Un ragazzo di 25 anni investe con l’idea di mettere da parte qualcosa per gli anni della pensione, non dovrebbe essere interessato ad entrate periodiche: meglio reinvestirle, con un fondo ad accumulo dei proventi.
In questo modo si sfrutta al massimo l’effetto della capitalizzazione degli interessi – se vogliamo è una sorta di PAC.
Se invece si è più in là con l’età, ormai in pensione, una piccola integrazione periodica al proprio reddito potrebbe fare comodo, visto che solitamente le entrate negli anni della pensione sono più basse rispetto agli ultimi anni di lavoro (l’80% dell’ultimo stipendio se va bene, ma anche il 40% in certi casi). Un fondo o un ETF a distribuzione dei proventi potrebbe essere la risposta giusta a questo tipo di esigenza.
GESTIONE ATTIVA O PASSIVA? TOTAL RETURN O BENCHMARK?
Vi sono fondi che lasciano ampissima libertà d’azione al gestore, la cui missione è ottenere la miglior performance, in assoluto (magari con qualche vincolo su qualità e quantità di rischi che può assumere): sono i fondi attivi total return (o absolute return). Attivi perché il gestore prova a far del suo meglio.
Altri fondi attivi, detti fondi a benchmark hanno un indice di riferimento, che si chiama benchmark, e il gestore è chiamato a batterlo ottenendo una performance migliore. Che però difficilmente si scosterà più di tanto da quella dell’indice benchmark. È il problema della gestione relativa: se in un dato anno la performance del benchmark è -5% e quella del fondo -2%, il gestore è stato bravo (ha creato “alfa” pari a 3%), ma voi avete comunque perso soldi…
Vi sono poi i fondi passivi (come gli ETF): il gestore rinuncia a battere il benchmark e si limita a replicarlo – cosa meno semplice di quanto si creda.
Qui il punto è: voglio affidarmi totalmente al gestore, lasciandogli massima libertà, o desidero che il mio fondo miri a superare uno specifico indice di riferimento, di solito corrispondente a un’asset class? O addirittura preferisco che non ci provi nemmeno? La scelta non è indolore: i costi commissionali tendono a essere molto più bassi per i prodotti dichiaratamente passivi.
La maggior parte degli investitori vuole guadagnare, non battere un indice, sicché molti prediligono fondi total return; importa poco di non aver battuto il mercato, se si guadagna. Dunque i fondi che replicano un benchmark hanno senso soprattutto quando sono inseriti all’interno di un portafoglio articolato dal punto di vista delle classi di attivo: per esempio, si definisce l’asset allocation, e poi si cerca il miglior gestore per ciascun asset class. Sapendo che resterà fedele a quell’asset class, e cercherà di far meglio dell’indice che la rappresenta.
QUANTO MI COSTA L’INVESTIMENTO?
I costi sono una delle poche certezze degli investimenti. Quindi, occhi ben aperti.
Le tre voci principali da tenere d’occhio sono le commissioni di sottoscrizione, le commissioni di gestione e le commissioni di performance (da guardare con enorme attenzione perché spesso sono molto sfavorevoli all’investitore, contrariamente a quanto si può pensare a prima vista).
Sul tema costi, MiFID II dà una grossa mano all’investitore, imponendo grande trasparenza su quanto e cosa si paga. Con la nuova normativa infatti, tutte le spese che l’investitore dovrà sostenere nel corso dell’anno (commissioni d’ingresso e uscita, di intermediazione, gestione e performance, di consulenza e incentivi percepiti dall’intermediario per il collocamento) sono indicate in modo chiaro e puntuale al momento della sottoscrizione. Il costo complessivo (indicatore sintetico di costo, o TER – Total Expense Ratio) è espresso sia in percentuale sull’importo investito sia in valore assoluto. Un consiglio: ponete particolare attenzione ai costi della consulenza e valutate se sono in linea con la qualità del servizio.
Inoltre, non è detto che si debba scegliere per forza il fondo che costa meno in termini commissionali. È però importante sapere che cosa si sta pagando e perché, e poi decidere sul da farsi.
QUANTO RENDERÀ IL MIO INVESTIMENTO?
È normale guardare alla storia del fondo per capire come si è comportato e capire se ha le carte in regola per farci guadagnare in futuro. Nel far ciò occorrono però alcune accortezze:
- non focalizzatevi troppo sulle performance, volatili e troppo spesso dominate dal caso;
- guardate invece gli indicatori di performance aggiustata per il rischio, come lo Sharpe Ratio e il Sortino Ratio (più sono alti, meglio è – se superiori a 0,5 sono decenti, oltre 1 sono ottimi, oltre 1,5 sono eccellenti) calcolati su almeno due anni di dati, che vi dicono quanta performance è stata ottenuta per unità di rischio assunto, scremando i gestori che hanno avuto performance ottime solo perché hanno assunto dosi massicce di rischio e hanno avuto tanta fortuna – sul punto vi consigliamo caldamente questa lettura;
- più lungo è il periodo sul quale si analizzano i dati, meglio è;
- periodi inferiori ai due anni – lo ribadiamo – NON sono significativi;
- ergo diffidate di chi si fa bello con le performance dell’anno in corso, sono davvero poco rilevanti;
- se il fondo che si sta analizzando ha meno di due anni di storia, meglio guardare le metriche di rischio atteso, anche se non tutti le forniscono (noi di AdviseOnly sì, sempre).
LEGGERE I DOCUMENTI FONDAMENTALI
- Il KIID (Key Investor Information Document) è una sorta di “bugiardino” del fondo, due paginette che espongono in estrema sintesi le caratteristiche chiave del prodotto: quali sono gli obiettivi e la strategia d’investimento del fondo? Quali sono e a quanto ammontano le commissioni? Quanto è rischioso e quali sono i risultati ottenuti in passato? Vale la pena leggerlo tutto, con grande attenzione. Poi, per approfondimenti, si può contare sul prospetto informativo e il factsheet.
- Il prospetto informativo è un documento corposo (centinaia di pagine scritte in un linguaggio un po’ tecnico) che include tutte le informazioni relative al fondo. Vi si può fare riferimento per approfondire le informazioni fornite dal KIID – in particolare quelle sui costi, esposti con dovizia di particolari (la buona notizia è che ha un comodo indice, utile per orientarsi nella lettura).
- Il factsheet passa ai raggi X performance, rischio e scelte di asset allocation, come la ripartizione geografica, quella valutaria e quella settoriale, se rilevanti. È qui che trovate gli Sharpe Ratio (e magari il Sortino Ratio) del fondo, insieme alle altre misure di performance e rischio, come la volatilità, calcolata su diversi intervalli temporali. È un documento aggiornato di frequente, in modo da presentare numeri “freschi”.
- Il regolamento del fondo disciplina formalmente l’attività del fondo, descrivendo il processo d’investimento, i rischi assunti, i limiti gestionali e tutti gli altri aspetti salienti. Purtroppo – spiace dirlo – è generalmente un documento illeggibile per la maggior parte delle persone, scritto in ispido linguaggio giuridico-finanziario. Pur trattandosi di un documento giuridicamente importante (al quale ad esempio si fa riferimento per eventuali controversie), è di scarsa utilità per il piccolo risparmiatore.
Consultando questi documenti, resi sempre più fruibili e chiari dalle nuove normative europee, l’investitore può farsi un’idea concreta della soluzione d’investimento, avendo a disposizione un significativo insieme di informazioni per valutarla.