Il conto alla rovescia è iniziato. Anche l’Europa, a giudicare dal coro dei membri della Bce, non solo i tradizionali “falchi”, sembra pronta alla svolta: prima la fine degli acquisti di titoli poi, già a luglio, un primo aumento dei tassi in scia alle mosse della Fed. E le colombe, per ora, tacciono.
“Ma sarebbe una mossa sbagliata: l’Europa rischia moltissimo”. A suonare l’allarme è Mario Noera, docente di Economia dei mercati finanziari alla Bocconi, attento analista dei problemi dei mercati. “Mi auguro che non se ne faccia nulla. Oppure che si proceda ad un aumento dimostrativo, di portata modesta. Altrimenti, se si sottovaluterà il rischio recessione, si andrà a sbattere con il rischio di una rapida marcia indietro”. A giustificare un’opinione così pessimista è la debolezza sul fronte delle materie prime, non solo il gas naturale, che limita le scelte dell’economia del Vecchio Continente. “L’Europa ha correttamente puntato sulla transizione energetica. E finora l’ha fatto bene. Ma ora, nello scenario che si è aperto con la guerra, rischiamo di tornare indietro: diciamo di voler aumentare la quota delle rinnovabili ma non dimentichiamo che gli investimenti sul gas richiedono molti soldi. Non sarà facile trovare un mix adeguato. Io vorrei accelerare il più possibile la transizione energetica ma non sottovalutiamo i costi, anche quelli di cui non si parla spesso”.
Eppure, caro professore, si moltiplicano le voci dei falchi a favore di un’azione energica contro l’inflazione che. tra l’altro, trova alimento nella discesa dell’euro sul dollaro. E madame Lagarde sembra obbligata ad adeguarsi. Sembra scontato che tra un mese o poco più la Bce si pronuncerà per un rialzo del costo del denaro. Il primo dopo undici anni. Solo un quarto di punto, all’inizio. Ma già si parla di altre mosse entro l’anno. Quali saranno le conseguenze?
“Molto gravi, temo. Ma per motivare il mio punto di vista vorrei fare un passo indietro per mettere in luce la diversa situazione tra Usa ed Europa. Ci sono cause diverse, sia effettive che percepite, che spiegano le differenze tra la congiuntura americana e quella europea. In particolare, negli Stati Uniti esiste un fondato problema di eccesso di domanda. Un caso classico che giustifica l’intervento della banca centrale per raffreddare le tendenze dei prezzi che si stanno muovendo al rialzo”.
In Europa invece?
“Nella Ue, al contrario, il problema sta nella carenza dell’offerta, conseguenza prima dell’incertezza provocata dalla distruzione della catena del valore alimentata dalle conseguenze della guerra. Questa è la prima distinzione fondamentale per affrontare una situazione che merita spiegazioni diverse e giustifica aspettative diverse dei mercati. L’economia europea, in particolare, soffre di problemi legati alla carenza di materie prime, non solo il gas naturale, che complicano il lavoro dei banchieri centrali”.
Si potrebbe obiettare che l’intervento sui tassi, a fronte di un’inflazione che viaggia a livello quattro volte superiore al target del 2%, obiettivo dichiarato di Francoforte è senz’altro una misura di per sé insufficiente. Ma comunque necessaria per spegnere i focolai. O no?
“Francamente non ci credo. Penso che, anche ai sensi della dottrina, la terapia monetaria che si intende adottare sia sbagliata. Ritengo che questa posizione rifletta solo l’incertezza dei comportamenti della Bce, a partire dall’ambiguità e dalla confusione dei messaggi in arrivo dalla banca centrale. Più che dare una rotta ai mercati, mi sembra, la linea e di stare a vedere quel che succede e poi far qualcosa”.
Un giudizio severo, non crede?
“Per carità, ci sono ottime attenuanti che giustificano questo atteggiamento all’insegna dell’incertezza. La situazione determinata dalle strozzature produttive è tale che può bastare uno scostamento minimo per produrre tensioni sui prezzi ed eventualmente innescare spirali inflazionistiche. Capisco la preoccupazione di stroncare fin da subito aspettative di quel tipo. Che nessuno si faccia illusioni, perché la banca centrale è pronta a spegnere richieste di aumento dei salari. Un piccolo aumento può servire a spegnere le tensioni. Ma c’è un ma”.
Ovvero?
“Se, come capita oggi, le tensioni salariali sono solo teoriche, l’avvertimento della banca centrale rischia di avere effetti fortemente recessivi. Magari non immediati. Ma anche di rapido effetto in una situazione come l’attuale, che si sta deteriorando molto velocemente. Non dimentichiamo che ci siamo già mangiati tutta la crescita di quest’anno, salvo gli effetti inerziali dei progressi passati. Ma ora dobbiamo guardare a quello che capiterà l’anno prossimo, con l’incognita della guerra in corso e le ricadute a cascata sulle varie economie. La mia impressione è che corriamo più un rischio recessione che una spirale inflazionistica. E mi spaventa che, di fronte ad un pericolo del genere, in Europa si discuta del ripristino del patto di stabilità. Così andremo a sbattere come è capitato altre volte”.
Come nel 2011 quando la Bce alzò i tasi innescando la polveriera della crisi greca?
“Calza meglio il precedente della crisi petrolifera anni Settanta. La decisione dei grandi produttori di alzare i prezzi in maniera esponenziale innescò uno shock dell’offerta mettendo le basi della successiva stagflazione. In una cornice del genere il compito dei banchieri centrali diventa quasi impossibile. Le imprese, infatti, in un primo momento subiscono la botta del calo dei profitti ma non alzano i listini, per non perdere i clienti. Si mette così in moto un effetto autocorrettivo sulla domanda”.
Alzare i tassi rischia di essere inutile. È così?
“Difficile calibrare l’intervento monetario di fronte ad una diagnosi così incerta: Non sai se prevarranno le aspettative o le pressioni recessive. Alcuni pensano che stavolta la botta della guerra, se non ci sarà uno sbocco positivo in tempo brevi, sarà così recessiva che presto ci troveremo alle prese con il problema opposto, cioè la deflazione”.
Per tornare agli anni Settanta, anche le tensioni sui salari possono esplodere quasi a sorpresa…
“Non ho la sfera di cristallo ma non vedo le premesse di un’evoluzione del genere. Per più motivi: un mercato del lavoro frammentato, l’uso e l’abuso dell’outsourcing, una dinamica salariale debole un po’ ovunque: in Europa non si vedono ancora le dinamiche salariali, che sono il vero fattore accelerativo delle aspettative inflazionistiche. Al contrario gli Usa vivono una situazione di pieno impiego”.
Che dovrebbe fare la Bce?
“Stringere un po’ ma non troppo, mandare dei segnali ma il grosso del lavoro devono farlo altri: la politica industriale, i sussidi per ridurre le emergenze. E la politica fiscale soprattutto. Purtroppo, il compito stavolta è davvero complesso perché ci troviamo di fronte al nodo delle materie prime. Oggi parliamo del gas, ma non sono meno gravi le carenze in altri campi. I chips stanno strangolando il settore dell’auto. A che servono gli incentivi se mancano i prodotti? Il compito della banca centrale, in una cornice del genere, dev’essere quello di favorire i processi virtuosi, stimolando una politica fiscale espansiva. Ma questo richiede risorse che l’Europa per ora non mobilita”.
Non la convince il piano energetico europeo?
“E’ una soluzione di compromesso. In realtà l’Unione, a partire dalla Germania, fatica a trovare un nuovo posizionamento dopo la fine della politica di Angela Merkel, basata sul compromesso con Mosca. Oggi, saltato quello schema, non ne abbiamo pronto uno di ricambio. Forse, parlando da cinico geopolitico e non da putiniano, occorreva un pizzico di prudenza in più. Adesso, tornando alle banche centrali, lo spazio di manovra della Bce è limitato dal vicolo cieco in cui l’Europa si è infilata”.
Soluzioni?
“O si punta tutto sulle rinnovabili con tanti massicci investimenti per compensare quello che perdiamo. La mia ipotesi di lavoro è quella di accelerare la transizione con massicci incentivi. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: questa politica ha un costo, che non è solo quello degli investimenti ma anche quello degli asset che vai a dismettere e che valgono tanto: oleodotti, raffinerie e quant’altro. Nessuno calcola mai l’importo degli stranded assets che rischiano di scendere in breve a zero dai bilanci di colossi come l’Eni chiamati per questo a sostituire le attività core a tempo di record”.
In questo quadro la Bce sembra avere le mani legate. O no?
“Io credo che in questa situazione difficilmente le politiche monetarie potranno diventare restrittive. Se, al contrario, lo diventassero, noi rischiamo moltissimo. La politica monetaria oggi può moderare le aspettative ma non a risolvere il tema dell’inflazione. Per scongiurare l’aumento dei prezzi occorre intervenire sulle strozzature produttive. E lì la banca centrale, da sola, può fare ben poco”.
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Il Prof. Mario Noera ha perfettamente ragione.
La BCE sta commettendo un grave errore che minera' la stabilità economica e sociale dell'area Euro.
Anche in passato la BCE aveva intrapreso la strada dell'aumento dei tassi di interesse, producendo un forte impatto negativo sulle economie di molti paesi Euro, fortunatamente Mario Draghi intervenne con il "quantitative easing", diversamente oggi non avremmo un'Europa.