“Senza aggiornamento delle istituzioni la ricerca di nuove politiche gira a vuoto”. In queste parole di Stefano Ceccanti, Professore ordinario di Diritto comparato alla Sapienza di Roma, costituzionalista esimio e già parlamentare del Pd, c’è tutta la passione dello studioso e insieme del politico abituato ad andare al cuore dei problemi. E le riforme costituzionali sono uno dei terreni cruciali su cui il nuovo Pd deve ancora dimostrare di essere all’altezza della sfida attuale. E’ quanto emerge da un appello al riformismo del Pd che Ceccanti ha lanciato nei giorni scorsi insieme a Morando e a Tonini con un destinatario chiaro, che è la nuova segretaria del partito Elly Schlein. “L’alternanza al Governo Meloni non è la somma passiva delle proteste sociali” chiarisce, senza troppi giri di parole, Ceccanti in questa intervista a FIRSTonline.
Professor Ceccanti, qualche giorno fa Lei, insieme a Enrico Morando e a Giorgio Tonini, ha lanciato su Repubblica un appello al Pd perché eviti una deriva massimalista correggendo in senso riformista la rotta della segreteria Schlein su alcuni punti chiave come le riforme istituzionali e la politica del lavoro: qual è esattamente l’obiettivo che vi ponete e realisticamente quante possibilità ci sono che il Pd recuperi una linea più marcatamente riformista dopo un Congresso che è parso andare in senso opposto?
“Nei grandi partiti di centrosinistra europei c’è una normale dialettica tra posizioni che ricalca in buona parte quella del Pd. Non è che un Congresso sia una sentenza definitiva anche perché chi vince viene messo alla prova dalla realtà dei fatti, ossia sulla capacità effettiva di realizzare un’effettiva alternanza di Governo, la quale non deriva dall’adesione passiva a una somma di proteste sociali. Sono frequenti i casi di successi interni di componenti massimaliste, identitarie, che poi però, dopo aver galvanizzato una parte degli elettori di appartenenza e svuotato qualche alleato, non vincono quasi mai le elezioni vere e proprie. Ci sono voluti molti anni al Labour Party per tornare ad essere competitivi con Starmer”.
Uno dei punti che criticate è quello della politica del lavoro perché l’aumento dei salari è, nella concezione della Schlein, slegato dalla crescita della produttività ma in merito alla lotta alla precarietà il vostro documento non si pronuncia sul modello spagnolo, tanto caro alla Schlein anche se lascia mano libera alle aziende per i licenziamenti, e non si pronuncia sul Jobs Act che la Schlein palesemente non ama ma che, secondo l’Istat, ha prodotto un milione di posti di lavoro in più: Qual è la vostra posizione su questi punti?
“Il punto non è questa o quella legge, questo o quel modello straniero, che è sempre di difficile clonazione, al massimo può essere un’ispirazione, ma di tenere presente anzitutto quello che diceva Olof Palme: per tosare regolarmente la pecora del mercato bisogna che essa abbia prodotto la lana. Non c’è affatto un automatismo sul fatto che la lana si riversi su tutti in assenza di una politica che spinga verso questo esito, i poteri pubblici sono certo chiamati a intervenire per distribuire la lana, ma non per uccidere la pecora o per farla ammalare. Si tratta di far funzionare bene le istituzioni democratiche, non di eliminare il mercato. In secondo luogo il punto sul mercato del lavoro è se noi immaginiamo di creare nuove modalità per far fronte agli inevitabili passaggi nella vita lavorativa, non di provare a tenere incollate le persone al posto di lavoro o a sistemi passivi di protezione. Anche le anomalie dei bassi salari e della bassa produttività devono essere affrontate insieme, altrimenti anche in questo caso la pecora si ammala, anziché produrre la lana da distribuire”.
La timidezza della segreteria Schlein sulle riforme costituzionali è il cuore delle vostre critiche, ma nel merito voi che cosa proponete?
“C’è un filo rosso che va dalla Tesi 1 dell’Ulivo del 1996 che anzitutto era non casualmente la 1 perché senza aggiornamento delle istituzioni la ricerca di nuove politiche gira a vuoto e che poi costruiva l’idea di un premierato non elettivo, ma in cui i cittadini come diceva Ruffilli scegliessero effettivamente una maggioranza di Governo, da proteggere poi contro le crisi con appositi meccanismi costituzionali. Anzi, se vogliamo anche andare a ritroso, il programma del Pds del 1994 parlava di “scelta esplicita della maggioranza parlamentare e del Presidente del Consiglio’”.
Anche la premier Meloni, al di là del semipresidenzialismo di facciata ad uso elettoralistico, sembra orientarsi verso il premierato e Matteo Renzi sostiene che il Pd sbaglierebbe ad opporsi all’elezione diretta del premier sul modello del sindaco d’Italia: lei che cosa ne pensa?
“Penso anzitutto che dopo i risultati delle elezioni 2022, che hanno portato di nuovo a un Governo legittimato direttamente dagli elettori, la realtà spinge positivamente a perfezionare quanto accade e quindi è bene che si rifletta su forme di premierato, di neo-parlamentarismo, come nel programma del Pds del 1994, nella Tesi 1 dell’Ulivo e come nel testo Salvi quello proprio sul premierato che era l’espressione dei gruppi del centrosinistra. Mi sembra più ragionevole un’indicazione del Premier sulla scheda, mutuando la soluzione di Cesare Salvi, come elemento incorporato nella scelta di una maggioranza. L’elezione diretta porterebbe naturalmente ad un meccanismo di elezioni in tutti i casi di dimissioni e di sfiducia: un modello che va bene per Comuni e Regioni ma che è troppo rigido a livello nazionale. L’indicazione del Premier unita alle quattro norme costituzionali tedesche (fiducia al solo Premier in una sola Assemblea parlamentare, potere di chiedere la revoca dei ministri, sfiducia costruttiva e potere di chiedere lo scioglimento se battuto sulla fiducia) credo sarebbero sufficienti. Segnalo per inciso che alla Bicamerale D’Alema queste posizioni erano sostanzialmente sostenute anche da Rifondazione Comunista: il testo presentato da Cossutta, Bertinotti, Salvato e Marchetti prevedeva la formalizzazione di candidature alla carica di Primo Ministro collegate ai candidati al Parlamento, la fiducia al solo premier, il potere di revoca e la proposta di scioglimento qualora battuto sulla fiducia”.
Se mai dovessero andare in porto, le riforme costituzionali sembrerebbero implicare una nuova legge elettorale: qual è la sua opinione? Si tornerà al sistema proporzionale o a un sistema più maggioritario?
“Il proporzionale senza coalizioni preventive non è adatto all’Italia per le ragioni che già spiegava Ruffilli: i nostri partiti senza vincoli non sono in grado di dar vita ad accordi di legislatura intorno al leader indicato prima del voto dal primo partito. Lo si è visto anche nel secondo sistema dei partiti, nei due casi precedenti al 2022 dopo elezioni non decisive: col Governo Letta nel 2013 e con quello Conte nel 2018. Il sistema più adatto all’Italia è quello di una forma ragionevole di premio che consenta una legittimazione diretta degli esecutivi, da proteggere poi con le norme costituzionali tedesche. Le coalizioni preventive con premio di Ruffilli e le norme tedesche devono andare insieme”.
Professore, come si colloca il progetto Calderoli sull’autonomia differenziata nel quadro delle riforme costituzionali e qual è il suo pensiero in proposito?
“L’autonomia differenziata non è gestibile senza una riforma in senso regionalistico del Senato, che è il vero difetto del Titolo V. Un regionalismo cooperativo che non ha una sede parlamentare di cooperazione in Costituzione non funziona. Quindi, non si può aggiungere l’attuazione di un altro pezzo del Titolo V senza prima rimediare a quella lacuna”.
Voi riformisti escludete categoricamente scissioni dal Pd ed è ovvio che sia così ma che tempi vi date? Fino a quando aspetterete per verificare se le vostre critiche hanno qualche speranza di essere accolte? Saranno le elezioni europee del 2024 lo spartiacque?
“Non ci sono ultimatum, anche in passato il Pd ha dimostrato di essere contendibile. Le leadership restano forti se sono in grado di rappresentare una credibile prospettiva di alternanza, altrimenti si apre lo spazio della contendibilità. Il Pd, nel sistema dei partiti odierno, non è certo un partito che possa accontentarsi del primato dentro il recinto delle opposizioni. Le scissioni minoritarie, invece, allontanano l’alternanza perché la credibilità della proposta alternativa di Governo non esiste realmente se non prevale nel partito maggiore”.