Pensione contributiva di garanzia e maggiore flessibilità in uscita per tutelare in futuro i giovani lavoratori di oggi. È di questo che si parla nel dibattito sulla cosiddetta “fase due” della riforma delle pensioni. Il confronto fra il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil è iniziato con l’appuntamento dello scorso 22 febbraio ed entrerà nel vivo alla prossima riunione, il 23 marzo. Nessuno crede alla possibilità di chiudere la trattativa nell’ultimo scorcio di questa legislatura, ma nei prossimi mesi si potrebbero comunque gettare le basi per un’intesa futura.
Tutto parte dall’ultimo accordo fra governo e sindacati in tema di previdenza, quello siglato lo scorso 28 settembre sulle novità introdotte con la legge di bilancio 2017 (dall’Ape all’Ape social, dalla quattordicesima al cumulo gratuito dei contributi, passando per lavoratori precoci e lavori usuranti).
In quel documento, al paragrafo “FASE II”, esecutivo e parti sociali «si impegnano a proseguire il confronto per la definizione di ulteriori misure di riforma del sistema di calcolo contributivo, per renderlo più equo e flessibile, per affrontare il tema dell’adeguatezza delle pensioni dei giovani lavoratori con redditi bassi e discontinui e per favorire lo sviluppo del risparmio nella previdenza integrativa, mantenendo la sostenibilità finanziaria e il corretto rapporto tra generazioni insiti nel metodo contributivo».
A livello operativo, l’accordo contiene otto possibili interventi di riforma del contributivo, il sistema di calcolo della pensione (meno favorevole del retributivo) introdotto dalla riforma Fornero per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995.
In particolare, nel testo si parla della possibilità di «valutare l’introduzione di una pensione contributiva di garanzia legata agli anni di contributi e all’età di uscita, al fine di garantire l’adeguatezza delle pensioni medio-basse», ovvero quelle di molti giovani di oggi, spesso precari se non disoccupati o vincolati al sistema dei voucher, con contributi scarsi e discontinui.
Su questo tema, da tre anni è stata depositata alla Camera una proposta di legge a firma Marialuisa Gnecchi e Cesare Damiano (Pd) per introdurre una «pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, del valore di 442 euro (rivalutabile secondo le disposizioni vigenti sull’attuale assegno sociale), aggiuntiva rispetto a quella maturata dal lavoratore, sia esso dipendente, autonomo o parasubordinato. Tale pensione è riconosciuta ai lavoratori e alle lavoratrici al compimento del sessantacinquesimo anno di età, purché abbiano versato almeno 15 anni di contribuzione effettiva. A partire dalla data di entrata in vigore della legge, l’importo della pensione è riconosciuto pro quota in ragione di un quindicesimo per anno per arrivare a regime dopo quindici anni». La misura «risponde all’esigenza di fornire un sostegno concreto alle future pensioni che saranno liquidate unicamente con il sistema contributivo e per le quali non è più prevista l’integrazione al trattamento minimo».
Nel 2009 anche l’ex deputato Pdl Giuliano Cazzola aveva presentato in Parlamento una proposta di riforma del sistema previdenziale che prevedeva, fra l’altro, una delega al governo per l’introduzione di una pensione di base. Il trattamento sarebbe «finanziato dalla fiscalità generale – si legge nel testo – su base universalistica e destinato a garantire, sia pure mediante la presenza e la maturazione di alcuni requisiti, a tutti i cittadini anziani prestazioni minime adeguate alle loro esigenze di vita». La pensione di base si sommerebbe a quella calcolata con il metodo contributivo «allo scopo di assicurare, in particolare ai soggetti con minore capacità reddituale e contributiva, trattamenti pensionistici obbligatori complessivi e lordi non inferiori al 60 per cento della retribuzione di riferimento».
Ma la pensione di garanzia (o di base) non è l’unico argomento su cui si discute. Tornando all’accordo di settembre, governo e sindacati si propongono anche di «favorire una maggiore flessibilità in uscita all’interno del sistema contributivo, anche con una revisione del requisito del livello minimo di importo per l’accesso alla pensione anticipata».
Sempre secondo le regole introdotte dalla riforma Fornero, chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 1995 potrà andare in pensione con un anticipo di tre anni rispetto all’età prevista per il trattamento di vecchiaia (quindi a 63 anni e 7 mesi) solo se avrà maturato almeno 20 anni di contributi e, soprattutto, una pensione pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale. Circa 1.250 euro al mese: una cifra piuttosto consistente per gli standard delle pensioni future.
Se nulla cambierà, quindi, tra qualche anno la pensione anticipata sarà concessa solo ai ceti medio-alti, ossia ai lavoratori che hanno goduto di retribuzioni significative nel corso della propria carriera. Ma se, alla fine della trattativa governo-sindacati, si decidesse di abbassasse la soglia a 1,5 volte l’assegno sociale (672 euro al mese), molti più lavoratori potrebbero godere di una maggiore flessibilità in uscita.
Nell’ambito della riforma delle pensioni per i giovani si valuterà anche la possibilità d’introdurre nuovi criteri per l’adeguamento delle pensioni alla speranza di vita, «riconoscendo – come ha detto Poletti – che non tutti i lavoratori e i lavori sono uguali».
Infine, potrebbero arrivare anche «interventi sulla previdenza complementare – si legge ancora nel testo dell’accordo di settembre – volti a rilanciarne le adesioni, a favorire gli investimenti dei fondi pensione nell’economia reale e a parificare la tassazione sulle prestazioni di previdenza complementare dei dipendenti pubblici al livello di quella dei privati».