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Riforma Pa: assurdo eliminare il voto di laurea nei concorsi

Anche se con un deciso ritardo, la riforma della pubblica amministrazione comincia a prendere corpo.  Il disegno di legge delega è stato approvato la scorsa settimana dalla Camera e dovrà tornare al Senato per una terza lettura. L’obiettivo è quello di chiudere la partita entro l’autunno prossimo.

Tra le misure, di un testo che può essere considerato sostanzialmente definitivo, c’è l’eliminazione del voto minimo di laurea per poter partecipare ai concorsi pubblici. Una scelta che lascia perplessi per tre ordini di motivi.

In primo luogo, richiedere un voto minimo alla laurea fornisce agli studenti il giusto incentivo ad impegnarsi durante gli studi universitari e a programmare le proprie scelte in un’ottica di medio-lungo termine: chi vuole lavorare per lo stato, deve sapere che ciò richiede impegno e costanza già durante il percorso accademico. 

In secondo luogo, la selezione a monte, evita concorsi “monstre”, con migliaia di iscritti, privi di una vera motivazione ma che partecipano solamente perché lo possono fare. Sbarrare la strada a chi ci “prova”, è un modo per premiare chi “investe” nel proprio capitale umano, rinunciando a voti insufficienti per poter avere una media elevata. Peraltro, spostando tutto il peso della selezione sulle prove concorsuali, si rischia di moltiplicare i casi di errori che, di certo, in passato non sono stati pochi.

In terzo luogo, favorire l’accesso dei migliori sin dall’inizio della carriera rende la nuova organizzazione della pubblica amministrazione più gestibile, in particolare quella della dirigenza, che presenta non poche criticità. La riforma prevede incarichi a termine – quattro anni, rinnovabili solo una volta e solo per altri due anni -, e promozioni in base al merito. Ma, è legittimo chiedersi, chi e come verranno valutati i dirigenti (si era parlato di una commissione esterna composta da esperti, ma la sua composizione e i criteri di selezione non sono stati definiti) e, soprattutto, cosa avviene in caso di valutazione negativa. Il testo all’esame delle Camere stabilisce che, passato un periodo “congruo” senza incarico, il dirigente possa essere licenziato. La durata di questo periodo non è, però, precisata –  due anni, tre anni, un quinquennio? – nonostante si tratti di una variabile non irrilevante per il buon funzionamento di un ente pubblico. Per chi volesse, invece, restare all’interno della pubblica amministrazione nonostante il mancato incarico, è prevista la possibilità di un demansionamento. E’ chiaro, però, che se il numero dei dirigenti disposti a “ridiventare funzionari” fosse relativamente alto, si rischierebbe di creare una classe di funzionari, non solo poco capaci, ma anche demotivati a causa della retrocessione. A chi ha lavorato in un ministero o in un qualsiasi ente pubblico non sfugge, peraltro, quanto sia prezioso il lavoro svolto proprio dai funzionari, talvolta anche più di quello dei dirigenti.

Data le complessità di questa nuova architettura – e il conseguente elevato margine di errore e di inevitabile discrezionalità -, la strategia migliore dovrebbe essere quella di organizzare concorsi capaci di valutare al meglio la futura classe di “civil servant”.

La doppia selezione, attraverso il voto di laurea prima e il concorso poi, è stata fino ad oggi, un criterio che ha funzionato: basti pensare che all’Ufficio studi della Banca d’Italia, che gode di una reputazione internazionale, si accede attraverso un concorso che richiede come voto minimo 110 (su 110).

Eliminare questo criterio significa avere una pubblica amministrazione meno selezionata e, quindi, meno preparata. Non è chiaro perché i contribuenti, che pagano gli stipendi dei dipendenti pubblici, debbano accettarlo.

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