E’ forse eccessivo ritenere che la riforma del mercato del lavoro sia, come ha detto Mario Monti, una svolta storica, ma certo per la prima volta dopo quarant’anni si è riusciti ad intaccare quelle norme dello Statuto dei lavoratori ed ancor più la prassi giudiziaria, che avevano fatto della intangibilità del posto di lavoro un vero e proprio dogma. Il compromesso che è stato trovato tra i partiti della “strana” maggioranza ed il Governo delinea un pareggio tra le esigenze di tutti: nessuno esce sconfitto e nessuno però può proclamarsi vincitore assoluto. Questo dal punto di vista della geografia politica, ma come giudicare l’efficacia della riforma dal punto di vista dell’interesse generale del Paese?
Per capirlo bisogna fare un ragionamento un po’ più articolato, in primo luogo sulla necessità o meno di una simile riforma, ed in secondo luogo sulla efficacia delle soluzioni adottate per sbloccare il nostro sistema che con l’andar del tempo ha creato profonde diseguaglianze all’interno del mondo del lavoro ed una forte perdita di produttività.
La Cgil ed una parte delle forze politiche di sinistra si sono attestate su una posizione di negazione assoluta della necessità di mettere mano al nostro mercato del lavoro rendendo più flessibile l’uscita in modo da creare un sistema più dimanico e più equilibrato tra gli ipergarantiti e quelli che non hanno alcuna tutela o che non riescono nemmeno ad entrare sul mercato del lavoro. Si è cominciato a dire che la riforma di per sè non crea lavoro e che ben altri sono i problemi che bisogna risolvere, dall’eccesso di burocrazia all’altissima pressione fiscale, per poter riprendere il cammino dello sviluppo. E questa affermazione a prima vista appare tanto di buon senso che ormai è un luogo comune così che viene ripresa persino dai vignettisti come Giannelli, che oggi sul Corriere fa dire ai suoi personaggi: “Ora c’è la riforma!” “Già ma è il lavoro che manca!”. Insomma la fitta schiera dei “benaltristi” è sempre in campo e si esercita su qualsiasi riforma venga proposta: è stato così per le pensioni, ed ha operato su larga scala nel caso delle liberalizzazioni, ed ora si è impegnata sull’articolo 18 e sulla riforma del mercato del lavoro. Tutti parlano ma nessuno si cura di andare a guardare i dati e le comparazioni internazionali pubblicati negli ultimi mesi e che dimostrano senza ombra di dubbio che mercati più flessibili fanno emergere giacimenti di lavoro inesplorati, come li ha chiamati Ichino ,e soprattutto riducono il tempo che passa tra la perdita di un posto di lavoro e la possibilità di trovarne uno diverso. In generale nel fuoco delle polemiche, si è data l’immagine di una situazione italiana disperata dove non si fa nemmeno una assunzione.
La realtà è ben diversa dato che nel 2010 sono stati stipulati ben 4 milioni di nuovi contratti di lavoro di cui un milione a tempo indeterminato. Quindi, sia pure in tempi di crisi, un mercato esiste e rendendolo più fluido, probabilmente si avrebbero più contratti ed in particolare più assunzioni a tempo indeterminato. Anche i dati sulla disoccupazione andrebbero letti in maniera meno allarmistica in quanto l’aumento dei disoccupati di oltre 300 mila unità non è solo dovuto a quanti hanno perso il posto ma soprattutto è dipeso dall’ingresso sul mercato di tanti inattivi (persone cioè che non lavoravano e nemmeno cercavano) che ora si sono attivati per cercare una occupazione.
Con questo non si vuol dire che la crisi non c’è, e che i posti di lavoro sono abbondanti , ma è certo che i difetti del nostro mercato del lavoro rendono ancora più difficile collocare le persone in tempi ragionevoli nel posto giusto. Questa affermazione è ulteriormente confermata dagli oltre 130 mila posti disponibili che non si riesce a coprire per cattiva informazione o per mancanza di persone con le qualifiche adatte alle posizioni richieste.
Una riforma non è quindi ininfluente sulle nostre potenzialità di ripresa. Il fatto che le autorità internazionali, a cominciare da Mario Draghi, lo ripetano fino alla nausea non può essere liquidato come una pressione del “Governo dei banchieri”. Questo è solo un insulto che serve per non entrare nel merito dei problemi!
Se a questo si aggiunge che un mercato del lavoro così profondamente spaccato tra precari e protetti non invoglia nè le imprese nè gli stessi lavoratori ad investire sulla formazione per l’innalzamento delle capacità professionali, si capisce come l’attuale assetto normativo abbia una parte di responsabilità nell’aver provocato la stagnazione della produttività del lavoro osservata negli ultimi 10-15 anni.
La riforma che è stata proposta da Monti e Fornero è adeguata ad innescare un cambiamento tale da invertire la tendenza alla riduzione degli investimenti ed alla perdita di produttività ? Monti ha giustamente affermato che quello che importa alle imprese è che d’ora in poi i problemi del lavoro non saranno più in balia dei giudici, ma che saranno “prevedibili” e quindi facilmente calcolabili. Difficile dire se la nostra giurisprudenza, sempre ricca di inventiva, corrisponderà veramente a questa esigenza di certezze visto che il ricorso ai giudici è ancora molto largo ed è stato reintrodotto anche per i licenziamenti economici per i quali si è aperta la possibilità del reintegro nel caso di motivazioni palesemente infondate da parte dell’azienda. Bisognerà vedere se durante il dibattito parlamentare sarà possibile ridurre la discrezionalità della Magistraura a fattispecie ben delimitate a chiaramente identificate. In caso contrario la prevedibilità andrà a farsi benedire.
Ci sono molte altre norme apprezzabili nella riforma che però determina nuovi oneri per le imprese, mentre manca un aspetto fondamentale e cioè quello della riorganizzazione delle agenzie dell’impiego e della relativa formazione. Queste agenzie dovrebbero avere la responsabilità di erogare i sussidi di disoccupazione, e soprattutto di favorire la ricollocazione dei lavoratori tenendo conto che il rifiuto di un posto, giudicato dall’agenzia idoneo, comporterebbe la perdita del sussidio stesso. Purtroppo queste agenzie dipendono dalle Regioni, molte delle quali sono altamente inefficienti. Già oggi al Sud nessuna Regione dispone dei dati sui nuovi contratti nè di quelli sulla disponibilità di posti. Come possono far incontrare domanda ed offerta se brancolano nel buio? Non parliamo poi della formazione ( per la quale esistono rilevanti fondi europei) che in molte Regioni serve solo ad assumere formatori che non sono capaci di formare proprio nessuno.
Nel complesso, ma speriamo di sbagliare, la riforma non sembra sufficiente ad innescare quella svolta che sarebbe necessaria per cogliere appieno i benefici di un mercato del lavoro più flessibile e nello stesso tempo equamente garantista per tutti i lavoratori. Monti ed i suoi ministri dovrebbero avere maggiore consapevolezza di essere per questo Paese, distrutto da tanti anni di malgoverno e che soffre di un vero e proprio collasso dello Stato, l’ultima possibilità di tentare un repero non troppo sanguinoso come sarebbe in caso di fallimento. Bisogna capire che i veri conservatori si annidano nei partiti, nemici di cambiamenti incisivi e di una vera e profonda revisione delle spese della politica e dello sperpero di denaro pubblico. La ragionevolezza va bene, ma non si può cedere troppo ad istanze conservatrici e gattopardesche che mirano a cambiamenti così lievi da non modifare nulla in concreto. La prossima sfida sarà proprio sul taglio della spesa pubblica che rappresenta la vera “mangiatoia” della partitocrazia italiana!
Allegati: Riforma del Mercato del Lavoro.pdf