Ore decisive a Palazzo Madama per le nuove norme sui contratti di lavoro, contenute nel decreto legge 34. Le correzioni apportate dalla commissione Lavoro al testo provenuto dalla Camera, tutte conseguenti solo agli emendamenti presentati dal Governo, hanno messo a punto un testo che è ormai quello definitivo. In assemblea il Governo ha posto la questione di fiducia. Il provvedimento dovrà tornare poi alla Camera, ma sembra destinato a essere ratificato definitivamente anche lì con il voto di fiducia. Il termine per la conversione in legge, fissato al 19 maggio, non consente ulteriori lavori parlamentari ordinari.
Il relatore sul provvedimento a Palazzo Madama, Pietro Ichino (Scelta Civica), ha illustrato le modifiche apportate in commissione Lavoro al testo della Camera nonché l’impostazione generale degli interventi progettati dal Governo sulla disciplina dei contratti di lavoro. L’intervento di Ichino in Aula è apparso particolarmente interessante, data anche la sua autorevolezza di studioso della materia e commentatore di politica economica.
L’IMPIANTO GENERALE: IL MODELLO DELLA FLEXSECURITY
Il decreto legge 34 – ha spiegato Ichino – costituisce la prima tappa di un disegno ambizioso di trasformazione del mercato del lavoro italiano. Con la riforma delineata nel disegno di legge delega, cosiddetto Jobs Act, il Governo si propone di semplificare incisivamente l’impianto della nostra legislazione in materia di lavoro e di modificarne il contenuto essenziale secondo il modello della flexsecurity, oggetto delle raccomandazioni ripetutamente rivolte dall’Unione europea agli Stati membri.
Un modello che implica essenzialmente la coniugazione del massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza professionale ed economica delle persone coinvolte nelle crisi occupazionali e nei processi di mobilità dai vecchi posti di lavoro ai nuovi. Sicurezza costruita non più sull’ingessatura del rapporto di lavoro, bensì sull’efficacia del sostegno del reddito e dell’assistenza assicurata ai lavoratori negli inevitabili passaggi tra posti di lavoro diversi, che già costituiscono e sempre più costituiranno eventi fisiologici del tutto normali nella vita professionale di ciascuno.
Il decreto legge mira essenzialmente ad anticipare gli effetti di questa riforma, allentando subito i vincoli concernenti la costituzione dei rapporti di lavoro, secondo i nuovi principi cui si ispirerà l’ordinamento delineato nel disegno di legge delega. Esso, dunque, rimuove in parte il diaframma di natura normativa che oggi ostacola indebitamente l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, con l’intendimento di produrre fin d’ora uno shock positivo sul mercato, un aumento sensibile del flusso delle assunzioni di lavoratori nelle aziende.
Se è vero, infatti, – ha osservato Ichino – che le norme non hanno il potere di “creare lavoro”, è altrettanto vero che esse hanno, invece, il potere di impedire l’incontro fra domanda e offerta nel mercato dell’occupazione. Proprio questo appare oggi il caso del nostro Paese, in cui un diritto del lavoro ancora strutturato nella sua parte centrale secondo le caratteristiche del tessuto produttivo di 50 anni or sono mal si adatta alla fluidità, e persino alla volatilità, del tessuto produttivo attuale.
IL RAPPORTO FRA IL DECRETO E IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA
Il nesso genetico e funzionale tra il decreto e il disegno di legge delega, che delinea la riforma compiuta e organica dell’ordinamento del mercato del lavoro, è esplicitato – ha spiegato Ichino – nella proposizione che apre il primo comma dell’articolo 1 del decreto legge, nel testo votato dalla Commissione lavoro, in cui si precisa che le disposizioni recate dal provvedimento d’urgenza sono destinate a collocarsi nel quadro di una riforma complessiva mirata a costruire la sicurezza economica e professionale delle persone che lavorano, non mediante l’ingessatura dei singoli rapporti di lavoro, che dovranno invece essere tutti, sia quelli a termine sia quelli a tempo indeterminato, caratterizzati dalla necessaria flessibilità; bensì mediante una congrua garanzia della continuità del reddito e di un investimento sull’efficace riqualificazione delle persone che, per qualsiasi motivo, perdano un lavoro.
La riforma, inoltre, – ha sottolineato Ichino – dovrà rispondere incisivamente all’esigenza di una drastica semplificazione della legislazione del lavoro. E in questa prospettiva si colloca l’impegno del Governo, questo pure esplicitato nel primo comma del primo articolo del decreto legge, per l’emanazione di un codice semplificato del lavoro.
I CONTRATTI A TERMINE
Niente causale fino a 36 mesi
Il decreto si fa carico in via d’urgenza dell’esigenza di consentire alle imprese lo sfruttamento di qualsiasi opportunità di aumento del volume produttivo e degli organici, intervenendo con effetto immediato in modo incisivo ed efficace sulla possibilità di utilizzare lo strumento del contratto a termine. Il primo comma dell’articolo 1 rimuove il vincolo della motivazione, non soltanto per il contratto a tempo determinato entro il limite temporale di dodici mesi (come già consentito dalla legge n. 92 del 2012, cosiddetta legge Fornero), ma anche per le proroghe fino a un limite massimo complessivo di trentasei mesi.
Tetto del 20% per i rapporti a termine in ogni azienda
Ichino ha spiegato che il dettato della direttiva europea n. 70 del 1999 viene rispettato col mantenere, insieme al limite complessivo triennale di cui si è detto, l’imposizione di un limite percentuale massimo – pari al 20 per cento dell’organico stabile censito al 1° gennaio dell’anno in corso – di rapporti di lavoro a termine in ciascuna azienda. L’abbassamento del numero massimo delle proroghe del contratto a termine da otto a cinque – con cui la Camera ha ritenuto di imporre una durata media non inferiore a sei mesi di ciascun periodo contrattuale convenuto tra le parti, nei casi in cui il rapporto copra l’intero triennio consentito – non sembra alterare significativamente la portata dell’innovazione normativa.
L’Italia sfrutta quasi integralmente la direttiva europea
Con questo intervento legislativo, dunque, l’Italia sfrutta quasi integralmente – sia pure con un buon margine di sicurezza costituito dall’applicazione di due su tre dei vincoli previsti come alternativi tra loro dalla direttiva europea – lo spazio consentito dall’ordinamento comunitario per la diffusione del contratto a termine. Con questo si compie – secondo Ichino – una svolta assai rilevante nel nostro diritto del lavoro, dalla quale derivano conseguenze anche sul piano dell’apparato sanzionatorio: il contratto a termine non è più considerato dal nostro ordinamento nazionale come “socialmente pericoloso”; dunque esso non richiede più una “giustificazione” che gli consenta di superare la presunzione negativa che dal 1962, per mezzo secolo, lo ha accompagnato.
La sola cautela che circonda il suo utilizzo, d’ora in poi – secondo uno standard che accomuna tutti i Paesi europei più progrediti – è mirata a evitare che il contratto a termine diventi la forma normale del lavoro nell’impresa, ovvero il tipo negoziale predominante fra i contratti di lavoro di cui l’impresa è titolare: questo e solo questo è ciò che il limite del 20 per cento, riferito all’organico aziendale, si propone di evitare.
Obbligo d’informazione sul diritto di precedenza nella riassunzione
Sul testo dell’articolo 1, sul contratto a termine, come modificato in prima lettura dalla Camera, la Commissione lavoro del Senato ha apportato, su iniziativa del Governo, tre emendamenti. Il primo mira a chiarire che l’obbligo di informazione gravante sul datore di lavoro nei confronti della persona assunta con contratto a termine, circa il suo diritto di precedenza nella riassunzione, può e deve essere assolto con il richiamo di tale diritto nello stesso documento contenente il nuovo contratto di lavoro, non essendo necessaria la consegna di un documento apposito.
Sanzione amministrativa per le aziende che non rispettano il tetto del 20%
Il secondo emendamento riguarda la sanzione civile destinata ad applicarsi nel caso in cui il contratto a termine sia stato stipulato in eccedenza rispetto al limite del 20 per cento dell’organico aziendale. La sanzione prevista consiste in un’ammenda amministrativa, pari a un quinto della retribuzione complessiva oggetto del contratto in questione per il primo caso di superamento nella singola unità produttiva, che aumenta alla metà della retribuzione complessiva per i casi successivi.
Il tetto del 20% non vale per i ricercatori
Il terzo emendamento all’articolo 1 consiste nell’aggiunta di un esonero dal limite massimo del 20 per cento di persone assunte a termine nell’organico aziendale per i ricercatori e il personale tecnico degli istituti pubblici o privati di ricerca scientifica. Esso consente, inoltre, che il contratto a termine per attività di ricerca scientifica possa avere corso fino al compimento del progetto di ricerca in funzione del quale esso è stato stipulato. Entrambe le disposizioni si giustificano in considerazione del fatto che nel settore della ricerca scientifica l’ingaggio a termine secondo lo schema del triennio, quadriennio o quinquennio, eventualmente suscettibile di raddoppio, costituisce uno standard comunemente applicato e rispettato sul piano internazionale e, come tale, già praticato in questo settore anche nel nostro Paese.
CONTRATTO DI APPRENDISTATO
Piano formativo nel contratto fin dall’inizio
L’articolo 2 del decreto legge interviene sulla materia del contratto di apprendistato, apportando alcune novelle al testo unico in vigore (decreto legislativo n. 167 del 2011). Il comma 1, lettera a), numero 1 di questo articolo, come modificato dalla Camera e votato dalla Commissione lavoro del Senato, prevede che il contratto scritto contenga il piano formativo individuale fin dall’inizio, mentre la disciplina previgente prevedeva un termine di 30 giorni dall’inizio del rapporto per la sua redazione, e il testo originario del decreto legge eliminava del tutto questo obbligo. Si prevede, però, che il piano formativo sia in forma sintetica, mentre la disciplina previgente prevedeva la necessità di una sua definizione dettagliatamente compiuta, che favoriva il sorgere di un contenzioso giudiziale ex post circa la perfezione dell’adempimento dell’obbligo formativo.
Assunzione apprendisti: la soglia minima cala al 20%
Le disposizioni che compaiono sotto i numeri 2 e 3 della stessa lettera a) modificano la regola previgente che condizionava la possibilità di assunzione di nuovi apprendisti da parte di imprese con più di dieci dipendenti a una percentuale del 30 per cento (50 per cento dal luglio 2015) di conversione di rapporti di apprendistato in contratti di lavoro ordinario nel periodo precedente. In particolare, mentre il testo originario del decreto dispone la soppressione di quella condizione, il testo uscito dalla commissione Lavoro la ripristina.
Nell’articolo 2 del decreto legge si abbassa al 20 per cento la percentuale minima di conversione di rapporti di apprendistato precedenti in contratti di lavoro ordinario per l’assunzione di nuovi apprendisti, riferendo la percentuale al triennio precedente. Resta invariata, invece, rispetto alla previgente, la disciplina, – molto complessa, ha commentato Ichino – dei criteri di computo dei rapporti di apprendistato convertiti in lavoro ordinario e delle franchigie per l’impresa.
ICHINO CRITICA LA FORMA: IL TESTO E’ ILLEGIBILE
Dopo avere illustrato le modifiche riguardanti i contratti a termine e quelli di apprendistato, Ichino ha richiamato l’attenzione, criticandola, sulla forma scelta dal Governo per la redazione del decreto legge. “Come troppi provvedimenti legislativi che il Parlamento produce in materia di lavoro (e non soltanto) – ha ammonito Icino – anche questo è illeggibile da parte dei milioni di persone cui è destinato e che dovranno applicarlo. Non sarebbe stato affatto difficile scriverlo in forma molto più leggibile, oltre che più conforme alle linee guida proposteci dall’Unione europea”, ha sottolineato Ichino. Sarebbe bastato, quanto meno, riscrivere per intero le norme modificate anziché riportare solo le modificazioni – ha detto Ichino -. “L’auspicio – ha concluso – è che il nuovo codice semplificato del lavoro, il cui cantiere è stato aperto con il disegno di legge Jobs Act, segni una svolta anche nel modo in cui si scrivono le leggi, almeno in materia di lavoro”.