La riforma del mercato del lavoro, con l’obiettivo di renderlo più incentivante e rispondente ai canoni europei in tema di flessibilità, è ormai in dirittura di arrivo. Dopo il voto di fiducia del Senato, nei prossimi giorni passerà all’esame della Camera e, salvo colpi di scena, sarà legge entro la fine di giugno, nel rispetto del cronoprogramma indicato a suo tempo dal Governo.
La legge di riforma premia la difficile tessitura mediatoria del governo Monti tra i partiti dell’attuale maggioranza, che hanno raggiunto una convergenza su un argomento complesso, che ha generato un aspro dibattito tra le parti sociali e le stesse forze politiche.
La Confindustria è passata da una posizione iniziale di sostanziale collateralismo al progetto governativo di riforma ad una progressiva presa di distanza, sino alle recenti aperte critiche del nuovo presidente, trovando sponda nell’ala liberista del Pdl, mentre l’opposizione dei sindacati sull’art. 18, capeggiata dalla potente forza mediatica della Fiom-Cgil, ha portato il Pd a trovare una mediazione al proprio interno tra i riformisti e gli epigoni del “novecentismo”.
Dunque quella che sta per essere varata è probabilmente la migliore riforma possibile che il Governo possa fare nell’attuale fase storica, politica ed economica, ma, proprio in ragione della necessitata convergenza politica tra i partiti della maggioranza, presenta risultati concreti insoddisfacenti rispetto alle aspettative delle imprese, alle certezze da fornire agli investitori, agli stessi obiettivi occupazionali.
La riforma realizza uno scambio tra una minore flessibilità in entrata (con una riduzione dei canali contrattuali d’ingresso, salvaguardando la “flessibilità buona” e un ostacolo all’abuso di talune, pur permanenti, forme contrattuali, la “flessibilità cattiva”) e una maggiore flessibilità in uscita (mediante un’attenuazione del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi).
Il primo obiettivo viene in sostanza raggiunto, anche se con qualche eccesso di zelo, ad esempio in tema di conversione in rapporto di lavoro subordinato di forme spurie di collaborazioni a progetto o in tema di vincoli temporali alla gestione dei contratti a termine e della somministrazione, pur se attenuati in fase di conversione in legge.
Il secondo obiettivo registra invece – avendo dovuto perseguire un condizionante consenso politico-sindacale negato ai tentativi di precedenti governi – una attuazione soltanto parziale. E’ vero che viene infranto il tabù dell’intangibilità della sanzione re-integratoria – che per decenni aveva resistito ad ogni attacco -, ma è altrettanto vero che lo spazio riconosciuto alla misura alternativa dell’indennizzo economico è residuale e rimesso totalmente alla valutazione del giudice.
La nuova disciplina rischia dunque di affidare nuovamente al giudice quell’ampia discrezionalità valutativa sulla “manifesta infondatezza” o meno dei motivi addotti, che si voleva in origine limitare in funzione di esigenze di certezza dei rapporti giuridici, con tutte le conseguenze di disincentivazione di investimenti e di ulteriori assunzioni da parte di chi aspira a conoscere preventivamente il costo dell’eventuale risoluzione del rapporto di lavoro.
Per ridurre, almeno parzialmente, l’incertezza dei rapporti giuridici, la riforma ha introdotto un rito speciale per le controversie giudiziali in tema di licenziamento, al fine di consentire la riduzione dei tempi del processo.
Il nuovo rito processuale si propone di garantire in termini più effettivi l’interesse del lavoratore alla tempestiva re-integrazione, se illegittimamente licenziato, e, dall’altro, di evitare che l’eccessiva durata dei giudizi risulti oltremodo gravosa, in termini economici, per le imprese.
Si tratta di un rito con caratteristiche di celerità e snellezza, con la previsione di una vera e propria “corsia preferenziale” modellata sullo schema del procedimento di repressione della condotta antisindacale, ma che, in ossequio alla specificità del processo del lavoro, rivolto all’accertamento della verità materiale, prevede una istruzione vera e propria, sia pure con l’eliminazione delle formalità non essenziali all’instaurazione di un pieno contradditorio.
Riepiloghiamo i passaggi principali di questo nuovo “rito speciale per le controversie in tema di licenziamenti”, che dovrebbe applicarsi esclusivamente alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 Statuto dei Lavoratori (come modificato dalla riforma), anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
Il lavoratore licenziato può adire il Tribunale del Lavoro con un ricorso di “tutela urgente” che abbia ad oggetto solo il licenziamento e non altre domande addizionali, come ad esempio una domanda di risarcimento danni, anche se collegata con il licenziamento.
Il giudice, fissata l’ udienza entro 30 giorni dal deposito del ricorso, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contradditorio, procede nel modo più opportuno all’istruzione della causa e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, a confermare od annullare il licenziamento.
L’efficacia esecutiva del provvedimento assunto dal giudice al termine di tale fase (non sono previsti termini entro i quali la procedura dovrà esaurirsi, ma trattandosi di fase sommaria è presumibile che saranno brevi) non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce il giudizio di merito che dovrà essere instaurato entro i 90 giorni successivi (30 giorni per proporre opposizione all’ordinanza e 60 giorni per fissare l’ udienza di discussione da parte del giudice dell’opposizione).
All’udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contradditorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti o disposti d’ufficio e provvede con sentenza immediatamente esecutiva all’accoglimento o al rigetto della domanda. Contro tale sentenza è ammesso reclamo avanti la Corte d’ Appello entro trenta giorni, che fissa l’udienza di discussione nei successivi 60 giorni e, se ricorrono gravi motivi, alla prima udienza può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata.
Per finire, il ricorso per cassazione contro la sentenza deve essere proposto, a pena di decadenza, entro 60 giorni e la Corte di Cassazione deve fissare l’udienza di discussione non oltre 6 mesi dalla proposizione del ricorso. La caratterizzazione dell’ “urgenza” del nuovo rito, pur lasciando indefinita la durata del processo nei suoi gradi di giudizio (essendo demandata al giudice l’economicità del processo), dovrebbe peraltro, con le due fasi iniziali del procedimento di primo grado (ordinanza e successiva sentenza) dare una qualche maggiore certezza, in un lasso di tempo ragionevole, al corretto o meno operato aziendale, limitando il rischio di un impatto economico negativo in caso di reintegro del lavoratore licenziato.
E’ auspicabile infine che il pacchetto di misure urgenti destinate a ridurre la durata dei processi civili, messo a punto dal ministero della Giustizia, possa limitare a 6 anni anche la durata ragionevole del processo del lavoro contro gli attuali 8-10 anni che intercorrono tra la prima udienza del Tribunale del Lavoro e la sentenza definitiva della Cassazione.