Da tempo ormai, e la lettera della Bce dell’ agosto scorso ne è la riprova, le mutate condizioni della competizione internazionale rendevano improcrastinabile affrontare l’ultimo tabù del nostro diritto del lavoro, e cioè il sistema della “tutela reale” del posto di lavoro: era tempo ormai di mettere mano ad una profonda riforma dei licenziamenti individuali e collettivi, a partire dall’art. 18, passando ad un sistema che desse la possibilità alle aziende di operare con organici quali/quantitativi parametrati ai propri fabbisogni e non essere più soggette alla totale discrezionalità dei giudici del lavoro.
Mentre il legislatore, a partire dalla legge 223/91, e successivamente con la legge Treu, la Biagi e da ultimo, sulla ricordata lettera della Bce, con l’ art. 8 d.l. 138/2011 convertito in legge 148/2011 è intervenuto sul mercato del lavoro demandando all’autonomia collettiva il compito di svolgere una funzione regolamentare delegata o una funzione derogatoria della legge, il Governo Monti al contrario cerca di regolare il mercato del lavoro con una serie di interventi che anche in passato non sempre sono stati in grado di realizzare quel controllo pervasivo che si proponevano: è sufficiente pensare al fenomeno del lavoro sommerso nonostante che per cinquant’anni il mercato del lavoro sia stato governato dal servizio pubblico di collocamento.
In sostanza, non essendo lo Stato in grado di far rispettare le proprie leggi (a partire dalla favola metropolitana delle dimissioni in bianco o gli eventuali abusi facilmente sanzionabili), procede a modificare gli istituti (la cosidetta flessibilità buona) introducendo limiti e vincoli all’ utilizzo delle forme di lavoro non subordinate e maggiori costi per quelle subordinate.
Ma è sulla flessibilità in uscita che il Governo è venuto meno alle aspettative delle aziende, alle certezze da fornire agli investitori stranieri, agli stessi obiettivi occupazionali.
Si può dire che questo è servito a “imbarcare” la Cgil per farla uscire dall’isolamento e farne l’interlocutore più credibile a tutela dei lavoratori, ma non pare un grande successo politico in quanto ha fatto perdere la credibilità degli altri sindacati nei confronti del Governo.
Si può dire che questo è solo un disegno di legge che può essere modificato in Parlamento, ma non è mai accaduto che nell’approvazione definitiva i disegni di legge in materia di lavoro abbiano modificato norme a favore del sistema aziendale.
Solo chi, molto probabilmente, ha avuto scarsa frequentazione dei giudici del lavoro italiani può ritenere che non solo formalmente ma anche sostanzialmente sia stato infranto il tabù dell’intangibilità della sanzione reintegratoria – che finora aveva resistito ad ogni attacco-, ma è altrettanto vero che lo spazio riconosciuto al rimedio puramente indennitario è residuale e rischia di essere ulteriormente vanificato dai giudici.
E’ vero che anche la legge tedesca del 1951 prevede, in caso di licenziamento socialmente illegittimo, il reintegro o l’indennizzo economico (tra le 5 e le 12 mensilità) su decisione del giudice, ma, come ben sanno coloro che operano anche in Germania, a memoria di giudice non si ricorda il caso di un reintegro di lavoratore licenziato: come ha ricordato recentemente un sindacalista della IG Metall di Stoccarda, le aziende e il sindacato tedesco favoriscono sempre la conciliazione economica anche di fronte al giudice.
Rafforzare invece il ruolo del Giudice, come in realtà previsto dall’attuale disegno legge, significa non avere idea dell’orientamento politico della maggior parte dei Magistrati del lavoro: nella maggioranza dei casi, come del resto già avviene, il comportamento dei lavoratori non sarà mai così grave da giustificare il licenziamento, anzi nel caso di licenziamento economico, o per dirla come gli esperti di diritto del lavoro, per giustificato motivo oggettivo (ad esempio per soppressione organizzativa di un posto di lavoro) ci sarà sempre il giudice che continuerà a sostenere la manifesta infondatezza della motivazione del licenziamento in quanto il lavoratore poteva essere adibito ad altra mansione.
Inoltre, forse dimenticando che in Italia, la legge prevedeva già la nullità del licenziamento discriminatorio, si è accentuata la comunicazione mediatica sul divieto del licenziamento discriminatorio, come fosse una novità assoluta, rafforzando così una categoria di lavoratori superprotetti, non solo i sindacalisti ma i semplici iscritti al sindacato, che sono sempre stati reintegrati a prescindere dai comportamenti agiti perché licenziare un sindacalista o un sindacalizzato è sempre attività antisindacale e discriminatoria.
L’introduzione poi della nuova procedura sui licenziamenti individuali, che prevede il tentativo sindacale della conciliazione preventiva rischierà di impedire l’immediato allontanamento del lavoratore dal posto di lavoro: sarà sufficiente che il lavoratore cada in malattia per ritardare il licenziamento sino al termine del periodo di comporto che può durare diversi mesi.
Perplessità infine per la disciplina dei licenziamenti collettivi, che avrebbe avuto bisogno di una forte semplificazione, di una revisione e liberalizzazione dei criteri di scelta e di una sanzione indennitaria di minore consistenza per le violazioni formali o procedurali, sulla falsariga di quanto previsto per le analoghe violazioni formali e procedurali dei licenziamenti individuali (6-12 mensilità).