Le riflessioni che seguono riguardano che cosa può essere utile fare per favorire una “vera” ripresa economica trainata dall’industria. Si tratta di un proposito ragionevole, dato che l’Italia è il secondo paese manifatturiero dell’Europa e vanta competenze produttive e posizioni di mercato molto importanti sia all’interno che all’estero.
Finora, sulle politiche v’è stata una grande confusione di idee e di possibili strumenti. Dobbiamo intanto muovere dalla situazione attuale che vede l’Italia ristagnante con un sistema che sembra essersi assestato su un equilibrio di forte sottoccupazione delle risorse di cui dispone. L’industria sta viaggiando (aprile 2015) con un quarto di capacità produttiva inutilizzata (stima grossolana basata sull’indice della produzione industriale pubblicato dalla Confindustria) e la forza lavoro conta 17 milioni di persone che potrebbero lavorare, ma si trovano disoccupate o inattive. In aggiunta, registriamo oltre un miliardo (sic!) di ore di cassa integrazione. Questo stato di fatto, è noto, proviene dalla depressione seguita alla grande crisi finanziaria provocata dal comportamento censurabile, tuttora impunito, delle grandi banche internazionali. Alcune di queste sono state “salvate” dagli Stati nazionali, in barba a tutte le enunciazioni di principio sulle regole del “mercato” poste persino alla base dei trattati della stessa UE; un mercato che nessuno ha mai capito come avrebbe dovuto essere e che, è evidente, non ha eliminato i frutti cattivi. Un mercato tutt’altro che perfetto (come molti hanno creduto condividendo le azioni delle lobby anglosassoni e comunitarie) e che dunque “deve” essere corretto.
Lo sviluppo economico tornerà solo se si metteranno in campo politiche adeguate. Poiché siamo in pesante sottoccupazione, queste politiche debbono avere come obiettivo il pieno utilizzo delle risorse, in primo luogo della forza lavoro, cercando di eliminare i difetti inaccettabili della società moderna. Keynes li individuava ai suoi tempi proprio nell’incapacità di provvedere la piena occupazione e nella distribuzione arbitraria e iniqua di ricchezze e redditi (Teoria Generale, Cap. XXIV). Poiché credo nell’analisi keynesiana, trovo corretto puntare sugli investimenti i quali sono, è noto, il vero motore del progresso sociale: essi consentono di introdurre le innovazioni che di quel motore rappresentano il carburante.
Una politica nazionale che punti alla piena occupazione è possibile oggi? La risposta è no perché siamo vincolati da una politica comunitaria impostata su interessi che non sono i nostri e che prevede eccezioni (vedasi i citati salvataggi bancari) applicabili a favore dei nostri competitor e, ora e in prospettiva, a sfavore del nostro sistema bancario. Sull’argomento si dibatte molto e non mi dilungo, ma sottolineo che potremo uscire dall’impasse in cui siamo finiti solo se rimetteremo in discussione le regole comunitarie; a partire dal parametro (illegale per molti qualificati studiosi, il Prof. Giuseppe Guarino in primis), del pareggio di bilancio e delle componenti di entrata e uscita che vi concorrono.
Un altro principio da rimettere in discussione è lo statuto della Banca centrale europea (Bce) la cui azione va quanto meno ricondotta a quella delle altre maggiori banche centrali: il fine principale deve essere lo sviluppo economico e il progresso della società (ovvero dei cittadini “contribuenti” che la compongono) invece che una pura e semplice “stabilità” coniugata sugli interessi del paese prevalente. Occorre anche smettere di “difendere” la cosiddetta autonomia delle banche centrali, autonomia che viene usata non per il bene dei cittadini, ma per conservare le posizioni di privilegio di chi amministra per loro conto senza assoggettarsi al giudizio sui risultati.
Una politica nazionale per la piena occupazione deve avere come riferimento una domanda aggregata sostenuta da robusti investimenti. Non solo privati e non solo pubblici: servono entrambi, considerata la rilevanza dei due settori, pubblico e privato. Gli investimenti dipendono dalle attese degli imprenditori e dalla politica dello Stato. In Italia le attese degli imprenditori sono oggi negative perché il mercato interno non “tira”, mentre lo Stato frena la spesa pubblica a causa soprattutto della necessità di rispettare i cosiddetti parametri per la stabilità dell’eurozona. Non è questione di finanziamento né di capacità di esportare: dal 2004 l’autofinanziamento delle principali imprese italiane supera abbondantemente la spesa per gli investimenti tecnici (del 65% nel 2013: di tanto essi potrebbero essere aumentati in presenza di mercati favorevoli; dati Area Studi Mediobanca). Non manca neppure la capacità di vendere all’estero poiché a fronte della dinamica insoddisfacente dei consumi nazionali le nostre imprese (massimamente le distrettuali e del Quarto capitalismo) hanno spinto con successo il fatturato estero realizzando avanzi record della bilancia commerciale. Servono a mio parere due integrazioni alla politica nazionale. La prima riguarda lo Stato e la seconda i privati.
Lo Stato deve in primo luogo attuare una riforma seria per disciplinare gli investimenti pubblici. Intendo per tale “disciplina” una valutazione credibile e “tecnica” della loro produttività: utopia? Un investimento pubblico deve produrre reddito (o stimolarne la produzione da parte dei cittadini). Si possono selezionare criteri per stabilire una scala di preferenze: l’assorbimento della disoccupazione, la promozione di attività destinate ad impiegare manodopera qualificata, il sostegno a correnti esportatrici che stimolino la produzione interna e il riequilibrio del reddito pro-capite tra le aree geografiche avanzate e quelle arretrate (es. il Mezzogiorno che continua ad essere una grande risorsa non sfruttata per la nostra ripresa economica). Un’idea di questo tipo fu applicata in Italia nel 1982 quando venne costituito il Fondo Investimenti e Occupazione (Fio) per il finanziamento degli investimenti delle amministrazioni pubbliche. La selezione dei progetti si basava sull’applicazione di una metodologia derivata dalla prassi della Banca Mondiale; questo ad opera di un Nucleo di valutazione avente funzioni di istruttoria tecnica “con specifico riguardo alla valutazione dei costi e dei benefici” (art. 4, legge n. 181-1982). Il Nucleo operava presso il Ministero del Bilancio e della programmazione economica (iniziativa del ministro Giorgio La Malfa). Si cercava di applicare la massima di Spaventa secondo il quale l’amministrazione e la politica (che esprime il Governo) vanno distinte e separate. Coerentemente, il Nucleo di valutazione era composto da tecnici indipendenti che vantavano specifiche competenze; tra loro, molti italiani richiamati dagli impieghi che avevano in organismi internazionali (es. Enzo Grilli). È possibile fare in modo che un Ministro non conosca i nomi dei cittadini beneficiati dai suoi provvedimenti? Oppure, il che è lo stesso, che questi non pretendano, attraverso il lobbismo, provvedimenti a loro profittevoli? L’esperienza del Fio naufragò proprio a causa della “degenerazione amministrativa e politica e del malcostume” – sono parole dello stesso Spaventa richiamate da Ugo La Malfa nella sua Intervista sul non governo.
Ho richiamato questi principi perché senza un ripensamento serio del potere discrezionale attribuito dalle leggi attuali all’amministrazione pubblica sarà difficile ottenere investimenti pubblici produttivi. E persino opere pubbliche realizzate “a regola d’arte”, un’esigenza che i fatti di questi giorni (crollo di piloni e disfacimento dell’intonaco di una scuola inaugurata pochi giorni prima) riportano alla ribalta. Le famose riforme che servono alla crescita del Paese sono queste e non quelle di stampo comunitario volte a squalificare il nostro mercato del lavoro promuovendovi attività a basso valore aggiunto giustificate da bassi salari. A noi servono invece attività ad alto valore aggiunto e quindi impiego di personale qualificato remunerato con alti salari. La revisione delle leggi dovrebbe essere il primo problema da affrontare per un Governo che voglia davvero ottenere crescita trainata da investimenti ripuliti dalla crosta della corruzione. Questi interventi pubblici dovrebbero anche avere un effetto sulle attese dei privati. Ed inoltre, la politica nazionale andrebbe corredata da una politica territoriale attraverso la quale i cittadini possano sostenere lo sviluppo della propria area (una sorta di self government).
Un intervento “nazionale” di grande effetto potrebbe essere quello di destinare l’area milanese coperta dall’Expo 2015 ad una vera città della scienza nella quale i padiglioni espositivi venissero trasformati in sedi di ricerca, sia fondamentale che applicata. Serve per questo un forte raccordo tra il mondo accademico delle Università e il mondo imprenditoriale. Si potrebbero così attivare robusti motori di innovazione con risultati trasferibili alle nostre migliori imprese manifatturiere; quelle dei distretti e del Quarto capitalismo. Si tratta di imprese che già ora innovano continuamente, ma un supporto del tipo citato potrebbe dotarle di un’arma fondamentale per battere i concorrenti che stanno emergendo sempre più numerosi dai paesi in sviluppo, caratterizzati da bassi costi di produzione. Se la competizione mondiale sarà spostata sulla qualità – invece che sul prezzo – dei prodotti e sul loro maggior contenuto “prestazionale”,
la città della scienza potrà ben rappresentare la base fondamentale per la produzione di alta gamma.
Circa la politica territoriale, richiamo la proposta da me fatta insieme con Lino Mastromarino (Coltorti, Mastromarino, 2014, pp. 24 e ss.); essa si basa sull’utilizzo di due strumenti:
1) un piano strategico di distretto (o di area) messo a punto da un Comitato o agenzia locale e
2) una o più imprese pivot che realizzino investimenti capaci di attivare filiere locali.
Le imprese di media dimensione (pivot) hanno prodotto un’evoluzione nuova delle aree distrettuali italiane, dotandole di competenze e capacità organizzative e finanziarie. Esse sono le migliori espressioni del “Quarto capitalismo”, l’unico modello vincente di impresa manifatturiera di cui oggi dispone l’Italia. I piani strategici dovrebbero comprendere azioni volte a migliorare o ricostituire competenze organizzative mentre il finanziamento dei conseguenti investimenti andrebbe pensato, oltre che attraverso un rapporto con il sistema bancario locale, con il ricorso a strumentazioni di tipo nuovo: contratti di rete, bond di distretto o di rete, forme di capitalizzazione attraverso l’emissione di azioni di tipo nuovo (es. azioni di sviluppo), iniziative volte a favorire workers buyout, ecc. Resto peraltro convinto che il principale alimento finanziario di questi nostri sistemi produttivi debba rimanere il credito bancario e questo per due motivi: a) la migliore conoscenza del cliente che una banca locale (o con qualificata presenza locale) può raggiungere, b) la necessità di fondi a breve scadenza per coprire il capitale circolante, principale impiego capitalistico di una piccola o media impresa. In tale contesto è necessario mantenere all’impresa una certa stabilità del finanziamento a breve, un concetto che per quanto apparentemente contraddittorio sta alla base dell’incentivo ad investire e a sviluppare gli affari in contesti locali specializzati.
Ultimo, ma non per importanza, le imprese minori e il Quarto capitalismo che le organizza in reti e filiere, vivono nei territori e si sviluppano solo se questi vengono salvaguardati. Sarebbe pertanto auspicabile che il risparmio prodotto localmente venisse investito localmente; in questo senso, le disposizioni annunciate sul credito popolare e la conseguente auspicata politica di nuove aggregazioni bancarie restringerebbero ulteriormente il numero degli istituti con vocazione locale. Non paiono perciò promettere nulla di buono.