Protagonisti dei pranzi del periodo natalizio della capitale, i saporiti carciofi alla giudia appartengono alla tradizione della cucina giudaico-romanesca del XVI secolo, come attestano ricettari e memorie che trattano della gastronomia del ghetto ebraico di Roma.
Con la bolla “Cum nimis absurdum” nel 1555 Papa Paolo IV, che resse il pontificato con pugno duro, innalzando l’Inquisizione a organo di governo della Chiesa e facendo arrestare i cardinali che, nel conclave che lo aveva eletto Papa, avevano rappresentato candidature alternative, attuò una politica di intransigenza e di limitazione nei confronti degli ebrei che risiedevano a Roma, come l’imposizione di portare un distintivo giallo, il divieto di possedere beni immobili e per i medici ebrei di curare i cristiani, e soprattutto ne limitò i movimenti confinandoli entro precise aree. Il ghetto di Roma fu il più esteso ed importante al punto che vi confluirono anche gli ebrei cacciati dalla Spagna di Isabella di Castiglia.
Nati nel ghetto per celebrare la fine del digiuno per la ricorrenza del Kippur
Il nome di carciofi alla giudia deriva dalla tradizione delle famiglie ebraiche di banchettare con carciofi fritti alla fine della ricorrenza del Kippur, che impone di rispettare il digiuno oltre all’astensione dal lavoro e dalle fatiche, per 24 ore.
Per preparare questo piatto facile ma molto saporito e croccante è fondamentale l’uso delle mammole, i carciofi cimaroli della varietà “romanesco” coltivata nel Lazio fra Ladispoli e Civitavecchia. Mammola e cimarolo sono due sinonimi, in entrambi i casi queste parole identificano il carciofo che cresce all’apice delle piante, solitamente il carciofo più precoce, voluminoso e saporito. Probabilmente i romaneschi hanno acquisito il nome di mammola e cimarolo per le loro dimensioni, mediamente maggiori rispetto a quelle di ogni altra varietà di carciofo. Il motivo per cui i carcioi mammola fritti alla giudia conquistarono ben prestio il palato di tutti è presto detto: tondi e senza spine, sono morbidi e delicati e possono essere mangiati interi e senza scarto
La ricetta, piccoli accorgimenti per un risultato di bontà assicurato
La ricetta (nella foto il classico carciofo alla giudia assieme al baccalà fritto proposto dal ristorante “Da Giggetto al Portico d’Ottavia) si prepara in poche semplici mosse: dopo averli tenuti immersi nell’acqua e nel limone per un quarto d’ora per ammorbidirli e impedire che si anneriscano si premono sulla tavola in modo da aprirne bene le foglie, quindi si tuffano in olio bollente per una decina di minuti con la testa all’ingiù schiacciandoli fino a dargli la forma aperta di una rosa; poi si effettua un secondo passaggio nell’olio bollente per consentire alle foglie aperte di aprirsi del tutto e diventare croccanti. Tra l’altro mente le foglie leggermente abbrustolite restano croccanti, il cuore del carciofo invece resta tenero e saporitissimo. Dopo la cattura si adagina sulla carta assorbente per eliminare l’olio in eccesso. Non resta a questo puntio che salare e mangiarli caldissimi.
Una ricetta dunque facile e gustosa che ben presto conquistò il palato anche dei romani che presero l’abitudine di recarsi a mangiarli nel ghetto anche oltre il tempo del Kippur.
Piatto povero ma arrivato in alto fin alle tavole dei nobili. Una leggenda racconta infatti che a Caterina de’ Medici piacevano così tanto che ne divorava moltissimi, fino a sentirsi male.
Nel film “Mangia, prega, ama” Julia Roberts li divora con gusto
E i carciofi alla giudia hanno fatto la loro comparsa anche nel cinema, in particolare nel film del 2010 “Mangia, prega ama” di Ryan Murphy, dove nel cast compaiono nomi come Julia Roberts, Javier Bardem, James Franco, e Luca Argentero. Tratto dal libro autobiografico di Elizabeth Gilbert, il film vede Julia Roberts in fuga da New York alla ricerca di se stessa attraverso tre esperienze: quella culinaria nei soggiorni romano e napoletano, quella spirituale in India, quella amorosa in Indonesia. E nella tappa italiana si delizia del sapore dei carciofi alla giudia
Per finire val la pena di ricordare che il grande Pablo Neruda, premio Nobel 1971 per la Letteratura, che conosceva bene Roma ed era un eccellente buongustaio, dedicò al carciofo una sua celeberrima Ode, in questo caso non alla giudia ma cucinato per un gustoso piatto di pasta.
Pablo Neruda: Ode al carciofo da “Odi elementari” (1954)
Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all’asciutto sotto le sue squame,
vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l’origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell’orto vestito da guerriero,
brunito come bomba a mano,
orgoglioso,
e un bel giorno,
a ranghi serrati,
in grandi canestri di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la milizia.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
ma allora arriva Maria col suo paniere,
sceglie un carciofo,
non lo teme,
lo esamina,
l’osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,
lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
entrando in cucina,
lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta
del suo cuore verde.