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Reti e infrastrutture, chiave del rilancio: investimenti, profitti e dividendi

Imagoeconomica

Politiche efficaci per l’uscita del paese dalla crisi sanitaria e da quella economica sono state indicate dal presidente del Consiglio Mario Draghi nelle sue dichiarazioni programmatiche al Senato il 17 febbraio 2021. È stata richiamata l’attenzione su: «la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G».

Nel giugno 2020, il Comitato di esperti in materia economica e sociale, coordinato da Vittorio Colao, aveva presentato all’allora presidente del Consiglio dei ministri il Rapporto Iniziative per il rilancio Italia 2020-2022. Si affermava che l’arretratezza di cui l’Italia soffre rispetto agli altri paesi OCSE è una zavorra pesante sulla strada del rilancio. Quel Rapporto nel paragrafo 4.2 definiva infrastrutture e ambiente “volano del rilancio” e li declinava in: piano straordinario di rilancio delle infrastrutture; infrastrutture per telecomunicazioni; infrastrutture energetiche e idriche e salvaguardia del patrimonio ambientale; infrastrutture per i trasporti e la logistica; infrastrutture sociali.

Su obiettivi a volte non molto dissimili da quelli indicati dal governo in carica, una trattazione era stata svolta lo scorso anno dalla Sapienza nel volume Industria, Italia. Ce la faremo se saremo intraprendenti (2020). In questo nuovo documento viene quantificato il quadro da cui si parte, in termini di competitività e investimenti realizzati nel recente passato, per rileggere il piano industriale di ogni società di gestione delle infrastrutture alla luce degli obiettivi governativi, e per valutare gli eventuali sforzi ulteriori. 

In una graduatoria stilata dall’Imd (2020) sulla competitività di 63 paesi, l’Italia occupa da un paio d’anni la 44a posizione, dopo India, Kazakhstan, Lettonia, Indonesia, Polonia, molto più giù della 30a che occupava nel 1999. Da allora, infatti, l’impossibilità di svalutare la moneta nazionale non è stata compensata con politiche mirate a incrementare la competitività. Nella graduatoria 2020, la Danimarca era 2a, l’Olanda 4a, la Svezia, la Norvegia e la Finlandia 6a, 7a e 13a, la Germania 17a, la Francia 32a.

La 44a posizione dell’Italia è la media pesata di oltre un centinaio di variabili per altrettanti versanti.

In questo lavoro sono stati raccolti, riclassificati, elaborati i bilanci consolidati per gli ultimi dieci anni dal 2010 al 2019 dei principali gruppi, a controllo azionario privato o di Stato o di Cassa depositi e prestiti (Cdp), che gestiscono le infrastrutture di base:

  1. Rete autostrade: Atlantia
  2. Cavi, sistemi telematici, di networking: Telecom Italia – Tim. Stazioni radio e impianti di telecomunicazioni: Vodafone
  3. Ciclo integrale delle acque: società Ato2 (gruppo Acea)
  4. Trasmissione elettrica: Terna
  5. Infrastruttura ferroviaria nazionale: Rfi
  6. Trasporto e dispacciamento di gas naturale: Snam.

Sono stati elaborati numerosi indicatori: età dell’infrastruttura in percentuale della vita utile, investimento tecnico materiale medio annuo in milioni, tasso di rinnovamento annuo dell’infrastruttura, distribuzione di dividendi agli azionisti in percentuale dell’utile, flusso di cassa entrante in rapporto ai nuovi investimenti. Per il periodo esaminato dal 2010 al 2019 emergono ordini di grandezza poco noti e, per certi versi, sorprendenti:

  1. Le infrastrutture autostradali e quelle telefoniche sono le più vecchie, con un’anzianità nel 2019 pari rispettivamente al 75% e all’81% della vita utile. Esula da questa analisi la constatazione che queste sono le uniche due infrastrutture gestite da soci privati. Altre tre (elettrica, ferroviaria, gas) nel 2019 avevano un’anzianità pari a metà e tra di loro simile (tra il 34 e il 43%). Per quella idrica non è agevole calcolare l’indicatore.
  2. L’investimento tecnico medio annuo nel periodo si è aggirato per ciascuna delle infrastrutture autostradale, elettrica, gas tra 1 e 1,4 miliardi. Per la rete ferroviaria è stato pari a 4 volte (poco meno di 5 miliardi) e per quella telefonica (sulla base delle due maggiori società operatrici) è stata pari al triplo (3,8 miliardi). Questi investimenti annui si ragguagliano a un tasso di rinnovamento medio intorno al 7%. Ciò vuol dire che, per rinnovare completamente l’infrastruttura a questi ritmi, occorrerebbe una quindicina d’anni.
  3. Il valore aggiunto in percentuale del fatturato netto per tutte le infrastrutture viene molto superiore a quello delle imprese industriali che operano sui mercati concorrenziali (20% del fatturato netto nel 2019, Area Studi Mediobanca 2020). Più precisamente questo indice per il 2019 viene intorno al: 90% per le infrastrutture dell’energia elettrica e del gas, 80% per l’autostradale e la rete ferroviaria, 60% per ciclo dell’acqua e per telefonia (nel caso di operatore proprietario della rete), 40% per telefonia (nel caso di operatore che non possiede la rete). Questi livelli sono strutturali e infatti sono confermati nei conti più recenti, al 30 settembre 2020. Il valore aggiunto sul fatturato è tanto maggiore quanto più l’attività è svolta con un’infrastruttura in regime di monopolio naturale.
  4. Questo troppo ampio divario fu segnalato già molto tempo fa (Gallo 2009). Esso si ripercuote sulla redditività delle vendite, che nelle medie e grandi imprese industriali esposte alla concorrenza si aggira sul 5%, mentre sta sul: 50% nelle infrastrutture autostradale, elettrica, gas; 30% in quella idrica; 15-20% nella telefonica; 10% in quella ferroviaria. Anche il livello di questa redditività è confermato nei conti societari al 30 settembre 2020, in contrasto stridente con la caduta drammatica dei profitti nelle imprese industriali lo scorso anno.
  5. Si riflette altresì sulla redditività degli investimenti, che in tutte le società esaminate si aggira mediamente tra il 7 e il 10%.
  6. Gli utili netti sono stati distribuiti ai soci per una quota media annua compresa tra il 55 e il 75% per tutte le infrastrutture, salvo le due controllate da privati, dove i dividendi mediamente hanno superato gli utili netti. Nei dieci anni, nel complesso delle sei infrastrutture, sono stati distribuiti dividendi per quasi 30 miliardi.
  7. In teoria, le società non dovrebbero distribuire dividendi, se non in via eccezionale. Quando la percentuale è alta, può essere considerata una misura di disaffezione dei soci. È corretto osservare che anche le grandi e medie imprese manifatturiere italiane distribuiscono massicciamente gli utili. Ma, seppure sia bene che le società di gestione delle infrastrutture di base siano permeate di cultura di mercato, è un male che siano contagiate dalla pluriennale e generale disaffezione dell’imprenditoria.
  8. Gli investimenti effettuati sono stati pari all’autofinanziamento cumulato e residuo dopo la distribuzione dei dividendi. Se gli utili non fossero stati affatto distribuiti, gli investimenti in queste sei infrastrutture sarebbero stati superiori per 30 miliardi. Ne avrebbe beneficiato la posizione competitiva del paese.
  9. Visto che la redditività è tanto elevata, resta difficile immaginare che i soci abbiano destinato i dividendi incassati a impieghi aventi un rendimento economico superiore.
  10. Esula dagli scopi di questo lavoro entrare nel merito dei sistemi adottati dalle rispettive Autorità di regolazione. È possibile che la determinazione delle tariffe in origine fosse ispirata a un principio di project financing, mirato a mettere a disposizione (dei promotori di opere di pubblica utilità) risorse finanziarie (generate internamente) in misura congrua per realizzare massicci investimenti. E che poi le politiche di remunerazione dei soci abbiano drenato le risorse generate e abbiano vanificato l’obiettivo originario.

Molti altri indicatori sono stati calcolati, a partire da quelli di produttività ed efficienza di gestione per finire a quelli patrimoniali e finanziari. Essi dimostrano che l’efficienza delle imprese esaminate è generalmente molto elevata, che i tempi di pagamento dei fornitori sono più lunghi quando si è in regime di monopsonio, che le società a controllo pubblico hanno un indice di indebitamento finanziario superiore.

Nei capitoli che seguono, le prospettive strategiche e industriali delle singole infrastrutture di base vengono analizzate alla luce sia di quanto realizzato nel passato decennio, sia dei piani aziendali, sia degli obiettivi fissati del governo.

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FIRSTonline

Riferimenti bibliografici

Area Studi Mediobanca (2020), Dati cumulativi di 2120 società italiane, Milano.

Comitato di Esperti in Materia economica e sociale (2020), Iniziative per il Rilancio dell’Italia 2020-2022, Rapporto per il Presidente del Consiglio dei Ministri, Roma, giugno.

Gallo R.

(2009), Imprese di reti e di servizi dal 1997 al 2008, in L. Rondi e F. Silva, Produttività e cambiamento nell’industria italiana. Indagini quantitative, Il Mulino, Bologna.

(a cura di) (2020), Industria, Italia. Ce la faremo se saremo intraprendenti, Sapienza Università Editrice, Roma.

Gobbo F., G. Zanetti (a cura di) (2000), Istituzioni e mercato: il ruolo delle Autorità nell’economia italiana, in Rivista di economia e politica industriale, n. 4, Il Mulino, Bologna.

Marzi G., L. Prosperetti, E. Putzu, La regolazione dei servizi infrastrutturali, Il Mulino, Bologna.

World Competitiveness Center (2020), World Competitiveness Yearbook, IMD, Lausanne – Switzerland.

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