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Renzo Rosso: “Creatività, impresa sociale, network di eccellenze: il mio modello è questo”

OTB

È un modello di impresa sociale e di fabbrica diffusa con un sapore decisamente olivettiano quello che ha in mente Renzo Rosso (66 anni, imprenditore vicentino della moda, conosciuto in tutto il mondo, fondatore e presidente di OTB, occhi di ghiaccio ma cuore da filantropo, con 3 lauree honoris causa e un’infinità di curiosità e passioni) come nuovo paradigma competitivo che fa della sostenibilità (ambientale, industriale e soprattutto sociale) non un orpello retorico ma uno dei pilastri fondanti del suo modo di concepire l’impresa. Un modello in cui tutte le eccellenze che concorrono a realizzare il suo network industriale (dal più oscuro artigiano a Glenn Martens, lo stilista che guida Diesel, pietra angolare di OTB – la holding di Rosso – e realtà in costante ascesa nel mondo del lusso e della moda) vengono valorizzate e inserite in un sistema organico e al tempo stesso originale.

Il modello di network che Rosso ha ideato e realizzato è un po’ la risposta alternativa a chi rimprovera all’industria italiana della moda e del lusso di non aver saputo creare un gigante come la francese Lvmh. Forse perché viene dal Nordest, terra di piccole, piccolissime e medie imprese ma molto dinamiche e fortemente proiettate sui mercati internazionali, l’inventore di Diesel non insegue il gigantismo della grande industria, a volte troppo lenta e talvolta ingovernabile, ma ha in mente un’industria molto più snella, veloce, flessibile e soprattutto accattivante che punta a creare sempre qualcosa di “estremamente cool”.

Ha fatto molta strada Rosso da quando nel 1978 ha creato il marchio di jeans Diesel, passando attraverso i più svariati settori, dal farmaceutico, all’hotellerie, ai voli low cost, alle auto, ma sempre con un’idea in mente: valorizzare e rispettare le persone e credere nella creatività e nel lavoro.

Rosso ha raggiunto livelli di eccellenza nel suo business, con diversi marchi nel settore della moda (da Diesel a Maison Margiela, da Marni a Viktor & Rolf, da Amiri a Jil Sander e a Staff International) e ha in programma di quotare la sua holding in Borsa, ma ha anche in mente un modello di industria rivoluzionario. Che ha però radici molto profonde nel tessuto economico italiano e in particolare nel Nordest. Ecco che cosa Renzo Rosso ha raccontato a FIRSTonline in questa intervista rilasciata qualche giorno fa nel quartier generale milanese di Jil Sander, rilevata l’anno scorso da una situazione complessa e che ha già raggiunto quest’anno il break even.

Rosso, c’è qualcosa olivettiano nel suo modo di fare impresa, attenta non solo al profitto ma all’innovazione continua, al rispetto delle persone e dell’ambiente: ci racconta come è cominciata la sua avventura imprenditoriale?

“Sì, volentieri, ma prima vorrei fare una confessione. Quando ho visto per la prima volta il film sulla vita di Adriano Olivetti, che mi è piaciuto molto, mi sono detto: ‘Ma quello sono io! Adriano faceva esattamente quello che avrei fatto io’. Ora si parla tanto di sostenibilità, ma per me c’era già nelle parole di mio padre quando mi insegnava il rispetto e l’attenzione per le persone. Quanto poi all’inizio della mia storia imprenditoriale diciamo che è stata tutta colpa di mia madre”.

In che senso?

“Perché nella famiglia di contadini in cui sono nato nel Veneto non è che i soldi circolassero in abbondanza e per risparmiare mia madre mi faceva sempre indossare i jeans usati prima da mio fratello. Sembrerà incredibile ma da lì è nata la mia passione per i jeans e la voglia matta di averne un paio nuovo tutto per me. Così mi sono messo in testa di produrre i jeans personalmente. Il primo paio di jeans, a vita bassa e a zampa di elefante, l’ho fatto a 15 anni con la macchina da cucire di mia madre. Una gioia pazzesca e una liberazione: finalmente un paio di jeans nuovi tutti per me e fatti da me. Poi ho cominciato a farli per gli amici e a venderli a scuola. L’origine di Diesel, che ho fondato nel 1978 con Adriano Goldschmied, nasce da lì”.

Perché Diesel? Che c’entra con i Jeans? E chi scelse quel nome?

“Fu scelto per due ragioni. La prima perché ai tempi della crisi petrolifera degli anni Settanta, la parola Diesel riecheggiava il carburante alternativo e il marchio Diesel poteva essere percepito come il marchio alternativo nell’abbigliamento casual. In secondo luogo era una parola pronunciata allo stesso modo in tutto il mondo e forse è per questo che la Cnn ha detto che “Diesel è il primo marchio a credere veramente nel villaggio globale e ad abbracciarlo a braccia aperte”.

Nel 2013 il New York Times ha scritto che fino ad allora, cioè 9 anni fa, si stimava che Diesel avesse venduto dalla sua fondazione 100 milioni di jeans. Si aspettava un successo del genere?

“Francamente no, ma Diesel mi ha dato la consapevolezza che la creatività italiana è un tesoro che può fare miracoli, se coniugata con l’organizzazione, con le tecnologie e con l’etica del lavoro, e forse gli italiani non se ne rendono pienamente conto”.

Rosso, veniamo ai giorni nostri e alla tragedia Ucraina. In due mesi la guerra ha cambiato il mondo, ha mandato in archivio la pace, e almeno per ora, sembra aver decretato la fine della globalizzazione. Che cos’è per lei la guerra e come la sta vivendo?

“È uno shock tremendo, che non immaginavo di dover vivere. E lo vedo soprattutto negli occhi delle 440 donne e bambini ucraini che la mia Fondazione Only the Brave, che gestisce mia moglie Arianna, ha accolto qui in Italia raccogliendo l’appello dell’Agenzia Onu per i rifugiati. Guardi loro e capisci quanto è grande la tragedia della guerra. Finora abbiamo dato loro una casa, il cibo, i vestiti, l’assistenza sanitaria. Ora pensiamo alla loro istruzione e alla loro educazione e, se la burocrazia non ci ostacolerà, penseremo anche a inserirli nelle nostre aziende nel rispetto ovviamente di tutti i diritti contrattuali. Ne approfitto per ringraziare la ministra Bonetti che ha capito subito il problema e che ci sta dando una mano”.

La guerra segna anche la fine della globalizzazione e cioè del sogno che un commercio internazionale senza limiti possa far da leva alla pace tra i popoli? Per un gruppo fortemente proiettato sui mercati come il suo cosa significa?

“È vero, la guerra ha creato molti drammi e grandi scompensi e noi con i nostri ospiti ucraini li viviamo ogni giorno da molto vicino. Ma le situazioni si possono aggiustare, non c’è un bianco e un nero. E noi siamo italiani: abbiamo nel Dna la capacità di gestire il business a seconda di come vanno le cose, cogliendo anzi insegnamenti dalle nuove situazioni. Quanto alla globalizzazione starei attento a non darla per morta. Finora è stata un elemento molto positivo perché ci ha portato, anche grazie al digitale, alla consapevolezza che il mondo non è più inteso come un insieme di tanti Paesi, ma come un unico Paese, in cui ognuno si specializza e da cui poi nasce lo scambio. Quanto poi al nostro Gruppo il mercato russo rappresenta solo il 2% del nostro business e non inciderà significativamente sui nostri conti”.

Poi torneremo ai conti e alle prospettive della sua OTB, ma restiamo sul possibile cambio di paradigma competitivo indotto dalla guerra e all’accorciamento delle filiere: per un’area produttiva fatta di piccole, piccolissime e medie realtà come il Nordest, cosa vuol dire tutto questo?

“Guardate, il Nordest e in particolare il Veneto ha subito un’infinità di invasioni straniere e ha sempre cercato di difendersi. Ma questa lotta per la sopravvivenza ha anche fatto scattare una voglia pazzesca di lavorare, di emergere, di fare qualcosa di davvero utile. Forse è stata proprio la sua storia a spingere il Nordest verso l’elasticità delle imprese e a non favorire la creazione di una grande industria ma un fiorire di bravissimi artigiani e di medie imprese in grado di eccellere su tutti i mercati del mondo”.

Un imprenditore del suo stesso settore come Patrizio Bertelli che guida il gruppo Prada sostiene che la mancanza della grande azienda è un limite per la moda ma più in generale per l’economia italiana. Lei cosa ne pensa?

“Conosco il punto di vista di Bertelli ma non la penso allo stesso modo. È vero che piccolo non è sempre bello ma essere grande non vuol dire essere cool. Io ho in mente un altro modello di impresa che punta non tanto al gigantismo delle dimensioni ma alle sinergie tra i tanti soggetti di un network che si basa sulla condivisione, sulla velocità, sul coraggio, sulla creatività, sulla sostenibilità e sul sostegno dell’intera filiera. Fare sinergia rende il lavoro più proficuo e più attraente. Lo si è visto anche durante il Covid e non solo nella moda. Le medie imprese acquistano sprint facendo sinergia con la filiera. Gli altri, se vogliono la filiera, devono comprarsela”.

Sta qui la differenza fondamentale tra la grande impresa e il vostro modello di fare impresa attraverso un network di eccellenze?

“Sì, la grande impresa può solo riprodurre un prodotto a catena. L’artigiano – che è alla base della manifattura – può invece fare qualcosa di veramente unico, di straordinario e di creativo. Io collaboro e mi unisco contrattualmente agli artigiani ma non li voglio comprare. La loro libertà imprenditoriale è un valore e noi li aiutiamo a crescere e a migliorarsi, ma li lasciamo al loro posto senza inglobarli. Riconosco loro un gettone di presenza e voglio che sappiano di essere sicuri di avere un lavoro. Garantisco loro formazione, li porto a un rating di qualità altissima, garantisco loro finanziamenti a un tasso competitivo e offro un livello non comune di sostenibilità che significa mostrare come lavori, come tratti i dipendenti, come li paghi: è questa la sostenibilità aziendale ed il nuovo mondo in cui i giovani vogliono lavorare. Anche grazie alla tecnologia, leghiamo la media impresa con l’artigiano e costruiamo una catena del valore in chiave moderna che rende l’industria più snella della grande, più veloce, più flessibile e più accattivante”.

Ma il suo modello di fare impresa è replicabile al di fuori della sua azienda e al di fuori del settore moda?

“Sì, è replicabile in molti settori. E alcuni imprenditori lo stanno applicando al di fuori della moda. L’idea fondamentale è di riunire le eccellenze in un network che ha una regia e una visione e che valorizza l’alleanza tra media impresa e artigiani, lasciando però a ognuno la sua autonomia. Secondo me, è il modello olivettiano di impresa di nuova generazione. È un’opportunità enorme che il tessuto economico offre all’Italia che, sotto il profilo imprenditoriale, è unica e ha una mentalità speciale. Quand’era in vita Enrico Cuccia mi chiamava ogni due mesi in Mediobanca per informarsi sulla crescita della mia azienda e sulla realtà delle medie imprese e si entusiasmava di quello che gli raccontavo”.

La politica italiana è spesso accusata di essere sorda ai bisogni delle imprese, lei che giudizio dà all’opera di Mario Draghi e del Governatore del Veneto Zaja?

“Draghi è un dono del cielo. Ha ridato autorevolezza all’Italia in tutto il mondo e sta cercando di fare le riforme che non abbiamo mai fatto. Si capisce subito che sta a Palazzo Chigi non per scaldare la poltrona ma per fare cose utili al Paese. Rispetto a Conte il nuovo Governo ha fatto un salto di qualità enorme e di Draghi ce ne vorrebbero non uno ma dieci. Un giudizio positivo lo merita anche Zaia non solo perché è veneto ma perché è saggio e concreto: non parla molto ma fa”.

Rosso, il suo gruppo ha appena presentato il bilancio del 2021 con tutti gli indicatori economici e finanziari in netto miglioramento – 1.530 milioni di euro di fatturato (+16,2%), 142 milioni di risultato netto (in crescita di 141 milioni sul 2020 e di 140 milioni sul 2019), 47 milioni di investimenti e oltre 6 mila dipendenti nel mondo -, ma il 2022 come si prospetta?

“Se continua così, ci aspettiamo che sia migliore, dell’anno scorso nonostante la guerra, il rischio di recessione e la coda della pandemia. Come dicevo prima, la creatività paga perchè per un’azienda, specialmente nel campo della moda, è fondamentale. Naturalmente, oltre a ideare e realizzare nuovi prodotti, devi avere un’organizzazione moderna, proiettata nel futuro e sui mercati di tutto il mondo, basata sulle tecnologie e sulla digitalizzazione ma soprattutto sulle persone e sui valori della sostenibilità. E poi ci vuole visione. È quello che cerchiamo di fare ogni giorno e non nascondo che siamo molto soddisfatti”.

In altri tempi lei aveva promesso di portare OTB in Borsa entro il 2024 ma ora che c’è la guerra e il rischio di stagflazione, il programma di quotazione resta attuale?

“Sicuramente sì, perchè in un’azienda che cresce continuamente come la nostra c’è bisogno della massima trasparenza e della partecipazione diretta di tutti i miei dipendenti che devono poter essere soci di un’azienda che hanno contribuito con me a far crescere. Poi la quotazione risponde anche a ragioni successorie, perché ormai in OTB sono entrati i primi 3 dei miei 7 figli e ognuno, se vale, deve avere il suo spazio”.

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