Quella che sta finendo non potrà essere ricordata come una settimana banale. Mercoledì 29 gennaio due scosse hanno finalmente animato la morta gora della vicenda italiana: l’accordo sulla riforma elettorale e il debutto del settimo gruppo automobilistico del mondo che nasce dal matrimonio tra Fiat e Chrysler. Due scosse salutari che hanno nomi e cognomi ben precisi e che vanno intestate a pieno titolo a due protagonisti dei nostri tempi come sono Matteo Renzi e Sergio Marchionne.
Era da vent’anni che si parlava, spesso a vanvera, di riforme elettorali e di riforme istituzionali. L’unico parto, che non sarà mai maledetto abbastanza, della Seconda Repubblica è stato il famigerato Porcellum e c’è voluto l’intervento della Corte Costituzionale per archiviarlo prendendo a calci l’immobilismo colpevole della classe politica. Poi è sceso in campo Renzi che in pochi giorni, con modi talvolta bruschi e magari indisponenti ma con grande determinazione, ha sfidato l’impopolarità e messo sul tavolo non uno ma due accordi con Silvio Berlusconi per approvare in tempi celeri non solo l’Italicum, la nuova legge elettorale, ma anche le riforme costituzionali che riguardano il Titolo V e le competenze dello Stato e delle Regioni e il superamento del bicameralismo perfetto con la trasformazione del Senato. La sfida è ardua e le prossime settimane diranno se lo slancio riformatore del nuovo segretario del Pd sarà premiato come merita, ma il dado è tratto e il traguardo della nuova legge elettorale e delle riforme istituzionali comincia a non sembrare più solo una vaga chimera.
Di fronte a avvenimenti di questa portata è giusto che in Parlamento e nel Paese si apra un ampio dibattito e che ognuno dica la sua, ma è un po’ stucchevole che non si comprenda che sui temi istituzionali il meglio è sempre nemico del bene e che nessuno può pensare di imporre illuministicamente il proprio punto di vista ma che, al contrario, dovendosi conciliare orientamenti diversi sulle regole del gioco, il compromesso è la via obbligata della politica e il sale della democrazia. L’alternativa è secca : se si vuole cambiare per davvero bisogna trovare un ragionevole punto di equilibrio tra le diverse tesi in campo, altrimenti c’è solo la paralisi o la palude o, se si vuole, le chiacchere da bar sport, come dimostra la penosa deriva del Movimento 5 Stelle che, ogniqualvolta si trova in palese difficoltà per la propria evidente incapacità politica, inventa un bersaglio di comodo come sta vergognosamente facendo con il Capo dello Stato.
L’altra grossa scossa della settimana è la presentazione di Fiat Chrysler Automobiles. Può dispiacere che il Lingotto abbia scelto come sede legale l’Olanda e come sede fiscale la Gran Bretagna (che non vuol dire, come erroneamente pensa la Camusso, non pagare le tasse in Italia, perché “la Fiat continuerà a pagare le tasse dove produce e vende i suoi prodotti facendo utili e dunque anche in Italia”), ma qualche autocritica l‘establishment italiano (classe politica, Confindustria e sindacati) dovrebbe farla perché è un po’ difficile dimostrare che il nostro Paese sappia meglio di Amsterdam e di Londra attirare capitali stranieri e assicurare tasse meno pesanti e regole meno farraginose. Ma mercoledì scorso sulle pagine economiche dei quotidiani e sui siti specializzati c’era un’altra notizia su cui meditare ed era l’annuncio del licenziamento di 3.500 dipendenti della Peugeot che, al contrario di tutti i lavoratori degli stabilimenti italiani della Fiat, non avranno più un posto di lavoro. Si può pensare tutto quel che si vuole della strategia di Marchionne ma l’onestà intellettuale impone di riconoscere che il ceo della Fiat aveva ereditato dieci anni fa un’azienda tecnicamente fallita e ne ha fatto il settimo gruppo automobilistico del mondo senza più aiuti di Stato e assicurando un futuro agli stabilimenti e ai lavoratori italiani. Si poteva fare di più e meglio? Certamente: nella vita si può sempre fare di più e di meglio, ma alla fine contano i fatti e non le parole. E allora giù il cappello davanti ai risultati realizzati di Marchionne, nella speranza che uomini nuovi come Renzi sappiano raccogliere fino in fondo la sfida lanciata dal ceo di Fiat Chrysler sulla modernizzazione del Paese.
Nei giorni scorsi Enzo Di Giorgio, un operaio che da 36 anni lavora alla Fiat di Mirafiori, ha commentato: “Non siamo stupidi e sapevamo quello che stava per succedere in Fiat, ma non è più tempo di discorsi filosofici. L’importante è lavorare tutti e bisogna che anche la Fiom lo capisca piantandola con i suoi no”. Ha ragione, signor Di Giorgio, le sue sono parole piene di sano orgoglio operaio. Per l’Italia sarà dura cambiare e risalire la china, ma finalmente le scosse salutari di Matteo Renzi e di Sergio Marchionne ci danno un po’ di speranza in un futuro migliore.