Per un lungo periodo la linea della III Internazionale (che era poi il Comintern a cui aderivano tutti i partiti comunisti) era quella di considerare come principali avversari le forze politiche più vicine. Così, con una serie di passaggi rozzi e sbrigativi, le grandi socialdemocrazie del primo dopoguerra finivano per essere considerate alla stregua di una sorta di anticamera del nazi-fascismo. Ovviamente – come vedremo – il mio è un paragone paradossale; ma, nel dibattito in corso sul referendum confermativo del “taglione” costituzionale dei parlamentari, le polemiche più accese (sia pure all’insegna del cavalleresco “Signori inglesi, sparate per primi”) avvengono all’interno del variopinto universo anti-populista, tra i sostenitori del Sì e quelli del No, sovente sul campo di gioco messo a disposizione da Il Foglio, che, pur sostenendo la linea del Sì, non nega, correttamente, spazio a coloro che sono di parere opposto.
Per rispetto delle opinioni altrui mi guardo bene dall’evocare il trattato La Trahison des Clercs di Julien Benda (1927), ma non riesco a spiegarmi certe posizioni ed argomentazioni degli amici del Sì. In primo luogo, non mi convince la loro parola d’ordine: guai a regalare una buona riforma ai populisti. Sarebbe, dicono, un grave errore politico provocato da un attacco di pedanteria (i negazionisti sono stati paragonati al Dottor Balanzone) e dal rifiuto di sporcarsi le mani come sarebbe dovere di un riformista. Secondo queste tesi, le anime belle del No lavorerebbero per il Re di Prussia, favorendo col loro snobismo proprio i populisti. Per difendersi da questa requisitoria occorre partire da una premessa: il dissenso sta proprio nel giudizio di merito e degli effetti istituzionali e politici del provvedimento sottoposto a voto di conferma. Dove sta scritto che si tratta di una riforma che va nella direzione giusta? Sono proprio i militanti del Sì a rimproverare gli italiani, che in maggioranza hanno votato contro la legge Renzi-Boschi il 4 dicembre 2016, di aver perso l’occasione della vita, perché sarebbe bastato superare il bicameralismo perfetto per risolvere tutti i problemi. Non avendo capito l’importanza di quella riforma, oggi ci tocca – rimproverano – di inforcare la bicicletta del “taglione” e di pedalare, perché la riduzione del numero dei parlamentari garantirà più efficienza al potere legislativo.
Fermiamoci un attimo su questo punto: ammesso e non concesso che il problema fosse e sia ancora il superamento (attraverso la pagliacciata di un Senato/dopolavoro dei governatori e dei sindaci) del bicameralismo paritario, se passa la legge su cui voteremo il 20 e 21 settembre prossimi, le due Camere diventano ancor più uguali di prima. Inoltre, se fosse talmente opportuna ed efficiente l’idea di una Camera (la sola con la pienezza dei poteri) più ridotta nel numero delle poltrone, perché, nella riforma del 2016, i deputati 635 erano e 635 sarebbero rimasti? Mi auguro, poi, che quelli che “si sporcano le mani” non saranno tanto ingenui da pensare che una vittoria del Sì verrà attribuita a loro e non agli sfasciacarrozze dell’antipolitica ai quali, loro, offrono un contributo importante e inatteso, mettendo delle facce perbene al servizio di una battaglia plebea. Avranno notato che i pentastellati lasciano fare e si accontentano dell’imprimatur dell’intellighenzia riformista?
È poi opinione comune che in mancanza di ulteriori provvedimenti di aggiustamento istituzionale il taglione produrrebbe solo guai seri. Ma chi assicura che i grillini saranno di parola? Se ne fa garante Nicola Zingaretti?
C’è poi un altro aspetto da considerare: il governo giallo-rosso è nato per impedire la ‘’resistibile ascesa’’ ai pieni poteri del Capitano e con la speranza di durare almeno fino all’elezione del Capo dello Stato. Se dovesse vincere il Sì, potrebbe l’attuale Parlamento sentirsi legittimato a lasciare in eredità a quello nuovo (e diverso per tanti motivi) la più alta Magistratura della Repubblica? Diverrebbe allora fortissima la spinta verso le elezioni anticipate, prima di entrare nel ‘’semestre bianco’’.
Per concludere queste riflessioni, devo dire che ho trovato assai discutibili gli argomenti con i quali il prof. Carlo Fusaro ha difeso il Sì sempre sul Foglio, criticando “l’ipocrisia del No”. Dopo aver esposto, puntualmente, quelle che a suo avviso sono le ragioni storiche, politiche e funzionali per dare il via alla riforma, Fusaro riconosce che il nuovo assetto eliminerebbe i “residui elementi di differenziazione fra due Camere gemelle”, in conseguenza dell’unificazione dei requisiti anagrafici dell’elettorato. Si arriverebbe in sostanza “ad una sorta di bicameralismo assoluto” cioè ad un Parlamento composto da due Camere del tutto identiche. Se è questo il parere esplicito di un “grande elettore” del Sì, quale sarebbe l’utilità della riforma? Fusaro risponde così: “È legittimo sperare che “un Parlamento di questo genere, costruito a ben vedere solo ed esclusivamente per rallentare i processi decisionali e indebolire il rapporto governo-Parlamento, finirà col risultare in tutta evidenza, rilanciando il tema delle riforme politico-istituzionali, quelle davvero incisive”.
Nel frattempo emergerà, secondo Fusaro, ‘’l’assurdità e la strutturale inefficienza di un Parlamento di questo genere’’. Per riassumere il concetto: il Paese deve farsi ancora più male per decidere di curarsi. La solita logica – per nulla riformista – del ‘’tanto peggio, tanto meglio’’. Se questo è l’obiettivo dei militanti del Sì, si assumano pure tutta la (ir)responsabilità di concorrere allo sfascio del Paese nell’attesa di poterlo ricostruire a modo loro. A noi del NO interessa conseguire, nelle urne, il miglior risultato possibile, per far emergere quella parte del Paese che rifiuta di arrendersi.