I quesiti referendari sono armi improprie micidiali. Ed hanno una caratteristica che li rende particolarmente pericolosi. Somigliano molto alle famigerate bombe antiuomo usate durante le guerre dei Balcani: una volta che sono state innestate è praticamente impossibile disattivarle. E quel che è ancora peggio: il loro scoppio è differito nel tempo. Così, all’ora fissata, arriva puntuale deflagrazione, qualunque cosa succeda nei dintorni: sia che nessuno passi di lì in quel momento, sia che ne venga travolta un’intera scolaresca in gita.
È sufficiente transcodificare la metafora in politica per comprendere che, una volta innestato, il meccanismo referendario prosegue inesorabile il suo corso, per esplodere mesi dopo, magari in un contesto politico imprevisto e radicalmente modificato. A volte l’operazione può andare bene; altre volte il cambiamento di scenario può rivelarsi disastroso, anche per gli stessi promotori del referendum.
Ma veniamo al caso di cui si parla e che è sbocciato come un gigantesco Menhir sul percorso accidentato di fine legislatura. La Corte Costituzionale sarà chiamata tra meno di un mese a pronunciarsi sull’ammissibilità di tre quesiti referendari (in materia di voucher, responsabilità solidale in caso di appalto e -udite, udite!- di licenziamenti individuali) promossi dalla Cgil, a sostegno dei quali l’organizzazione di Corso d’Italia ha raccolto oltre 3 milioni di firme nella generale indifferenza.
Dopo la “sconfitta” sul jobs act, la Confederazione ha avviato questa operazione “un po’ per celia, un po’ per non morir”; qualche cosa doveva pur fare. Ha inventato un pacchetto di sapore antico (la Carta dei diritti), contenente i quesiti ed un disegno di legge d’iniziativa popolare. Se la Consulta darà il placet ai quesiti stessi il Governo del Conte Gentiloni Silveri dovrà fissare la data della consultazione in un arco temporale compreso tra i prossimi 15 aprile e 15 giugno.
Per non infilarsi nuovamente in un’altra competizione referendaria ci sono solo due uscite di sicurezza: o una modifica sostanziale della legge nel senso richiesto dai promotori del rerferendum oppure il rinvio di un anno in conseguenza di elezioni politiche anticipate. Questa seconda ipotesi appare la più probabile. Anche perché, se al referendum si dovesse andare, non aspettiamoci che ci sia in Italia una sola forza politica disposta a battersi per il No ad un tiro di schioppo dal rinnovo delle Camere.
In sostanza, nella settimana delle resurrezioni (del Senato, del Cnel, delle Province, del Governo stesso) è risorto anche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori gettando un’ombra sinistra su quel complesso di norme che – nell’ambito del jobs act – hanno trasformato, per i nuovi assunti dal 15 marzo 2015, la normale protezione contro il licenziamento ingiustificato da ‘’reale’’ (mediante la reintegra giudiziale nel posto di lavoro) ad ‘’obbligatoria’’ (limitata, salvo eccezioni, al risarcimento del danno).
Il bisturi del quesito abrogativo seziona le regole sul recesso contenute in due distinte leggi: il dlgs n.23/2015 istitutivo del contratto a tutele crescenti e l’articolo 18 come modificato dalla legge Fornero del 2012 (la disciplina ora vigente per la grande maggioranza dei lavoratori italiani). Ma la manipolazione delle parole non comporterebbe un ripristino secco della normativa statutaria, ma produrrebbe un articolo 18 di nuovo conio: con la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo, anche per le aziende fino a 5 (non più 15) dipendenti.
In quelle con un numero inferiore di addetti, la reintegra non sarebbe automatica ma a discrezione del giudice. Al dunque, sia pure limitatamente alla tutela del recesso per motivi disciplinari ritenuto ingiustificato in giudizio (ma non ne siamo del tutto sicuri che la norma non si applichi anche ad altre fattispecie), ci sarebbe persino un’estensione della copertura alle micro-aziende da sempre escluse.
Anni or sono vi fu un tentativo di abolire il limite dei 15 dipendenti per via referendaria, ma gli italiani furono tanto saggi da non andare a votare facendo saltare il quorum necessario per la validità della consultazione. Insomma, un bel pasticcio, molto più destabilizzante – ammesso e non concesso che lo sia stato – dell’esito del referendum sulla legge Boschi. È plausibile che i datori ci penserebbero più volte prima di assumere e che magari ne approfitterebbero per licenziare fino a quando fosse ancora in vigore una disciplina meno vessatoria di quella che potrebbe scaturire dall’eventuale referendum.
Inoltre, un Paese che irrigidisce le norme sull’uso della manodopera (abrogare i voucher significa prendersela con una strumento che ha funzionato e prodotto reddito e lavoro) non può pensare di attirare investimenti esteri. Anzi, chi potrà se ne andrà. Ma siamo proprio sicuri che il quesito in materia di licenziamenti sia ammissibile?
A guardare la giurisprudenza della Corte la questione non è così pacifica; ciò, per un motivo formale ed uno sostanziale. Per quanto riguarda il primo aspetto non sembra possibile consentire che, con il medesimo quesito, si proponga l’abrogazione di un’intera disposizione legislativa (il dlgs n.23/2015 istitutivo del contratto a tutele crescenti) e di interi blocchi sparsi dell’articolo 18 “novellato” dalla legge n.92/2012, quando si tratta di normative che tra di loro non hanno collegamenti e che si applicano a soggetti diversi (a seconda che siano stati assunti prima o dal 7 marzo 2015).
Quanto all’elemento di carattere sostanziale, la Consulta non ha sempre avallato la manipolazione dei testi di legge allo scopo di attribuirvi contenuti e significati differenti, come avviene appunto in questo caso con la definizione, tramite un abile ‘’taglia e cuci’’, di un articolo 18 nuovo di zecca. Il referendum abrogativo è pensato per abrogare le leggi non per dare corso ad un processo di costruzione normativa indiretto e spurio.