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Referendum Jobs Act: la Cgil rischia di non raggiungere il quorum e di replicare la sconfitta di 40 anni fa sulla scala mobile

FIRSTonline

In una data (una domenica e un lunedì) tra il 15 aprile e il 15 giugno avrà luogo il referendum sui cinque quesiti ammessi dalla Consulta (di cui quattro sul lavoro promossi dalla Cgil ed uno sulla cittadinanza da altre forze). Così Alessandro Barbero, gradito ospite alla kermesse di Maurizio Landini a Bologna per l’apertura della mobilitazione referendaria, potrà raccontare, con un titolo vagamente dumasiano (“Quarant’anni dopo”), la nuova sconfitta della Cgil dopo quella nel referendum sulla scala mobile del 9-10 giugno 1985.

Il referendum del 1985: una sconfitta storica

Ovviamente le sconfitte come le vittorie sono anch’esse figlie del loro tempo. Nel 1985 per il nel referendum per l’abrogazione del decreto del 14 febbraio dell’anno precedente era stato il Pci a metterci la faccia. La componente comunista della Cgil si era mobilitata nel 1984 nelle piazze, mentre il partito faceva ostruzionismo in Parlamento durante l’iter di conversione in legge.

Adesso i quattro referendum sono stati promossi direttamente dalla Confederazione di Corso Italia, con l’adesione di pezzi del Pd e di altre opposizioni. Inoltre, 40 anni fa il confronto fu in campo aperto: andò a votare il 78% degli aventi diritto: il No vinse con il 54%; il perse con il 46%. Fu un risultato sorprendente perché tutti si aspettavano un risultato inverso.

Ancor più clamorosa fu la distribuzione del voto. Il Nord, quello industriale, si schierò per il no all’abrogazione: nelle regioni centrali rosse prevalse il , mentre nel Sud e nelle Isole, con l’eccezione di Puglia, Abruzzo, Molise e Sicilia, prevalse l’abrogazione. La sintesi migliore la offrì Carmelo Barbagallo, all’epoca segretario Uil di Palermo: “Ha votato contro la contingenza chi ce l’ha e a favore chi non ce l’ha“.

In valore assoluto i numeri sono sorprendenti anche oggi. L’affluenza, ad esempio, notevolmente alta: 34.959.404 italiani su 44.904.290; il risultato finale: 18.384.788 italiani si erano opposti alla cancellazione del decreto di San Valentino; 15.490.855, avevano risposto positivamente all’invito a cancellare il provvedimento (le bianche e le nulle – il dato è indicativo – furono in tutto 1.113.761).

Il nodo della questione lo colse Luciano Lama. In un’intervista a cose fatte rilasciata a Giampaolo Pansa, il segretario della Cgil ricordò che nelle riunioni sosteneva spesso che il referendum poteva essere un “bagno di sangue“, poteva risolversi in una clamorosa sconfitta con conseguenze incalcolabili sull’unità sindacale.

Lo ripeteva per provare a raffreddare gli animi di chi, al contrario, sosteneva che “il referendum va fatto per molte ragioni, e anche per una in più, che tanto lo vinciamo!”. Io replicavo ai miei compagni: “guardate che non è per niente sicuro che lo vinciamo. Può darsi che la maggioranza dei lavoratori dipendenti sia d’accordo con noi. Ma siccome il referendum non è tra i lavoratori dipendenti, bensì tra i cittadini della Repubblica Italiana, il rischio di perdere è molto forte, perché quelli interessati alla difesa della scala mobile sono una minoranza robusta, ma sempre una minoranza”.

Alla fine, la mia, è risultata una previsione persino troppo ottimistica. È successo che siamo andati peggio proprio nelle regioni dove il numero di lavoratori dipendenti è più alto. Anche nel fronte del No vi fu una discussione su come condurre la battaglia: recarsi a votare o disertare le urne per far mancare il numero legale? Prevalse la prima opzione anche se era molto diffusa la convinzione di non farcela. “La sconfitta è quasi certa ma non possiamo pensare di vincere con l’astuzia”: sostenne Giorgio Benvenuto.

Non si trattava di un ingenuo moto di fiducia nei confronti della maturità dell’elettorato perché in quel momento i segnali erano tutti in senso contrario. Era una questione di chiarezza: era stato fatto un negoziato, era stato raggiunto un accordo, quell’accordo aveva trovato forma in un decreto che aveva evitato in qualche maniera di dare un carattere ufficiale alla rottura sindacale (le firme su un pezzo di carta), bisognava comportarsi di conseguenza di fronte agli italiani, assumersi tutte le responsabilità che la vicenda imponeva.

I fatti gli diedero ragione. Quest’anno non sarà così: la Cgil e i suoi satelliti perderanno perché non riusciranno a raggiungere il quorum per la validità del referendum.

I rischi di un referendum perso in partenza

Il confronto sarebbe stato contendibile se fosse rimasto in campo il pronunciamento sulla legge Calderoli sulla cui abrogazione convergeva tutto l’elettorato dell’opposizione, sulla base di una campagna un po’ demagogica e populista e con l’obiettivo della “spallata”, mentre in quello della maggioranza erano presenti delle perplessità specie nelle regioni meridionali.

I quesiti di Landini potevano concorrere a fare “massa critica” in uno schieramento più vasto contro un avversario preciso: il governo e la maggioranza. Ma i cinque referendum ammessi non hanno un nemico: il governo non si è preso neppure la briga di far difendere le norme sub judice dall’Avvocatura dello Stato in udienza alla Consulta; i partiti della maggioranza (40 anni fa il MSI diede l’indicazione di votare a favore del referendum del Pci) non rivendicano certo la paternità del jobs act, un pacchetto di decreti legislativi varato dal governo Renzi (non c’è solo quello istitutivo del contratto a tutele crescenti che è nel mirino della Cgil); staranno a guardare come finirà la vendetta di Landini contro Renzi nei confronti di un provvedimento che è rimasto l’ombra di se stesso come ha fatto notare nella sentenza di ammissibilità (n.12/2025) la stessa Consulta, ricordando tutti gli interventi operati in questi anni a modifica dell’impianto iniziale e delle sue più significative innovazioni e segnalando le minori tutele per i lavoratori quale conseguenza dell’abrogazione integrale del dlgs n.23/2015.

Va da sé che una sconfitta per non aver raggiunto il quorum è una specie di k.o. tecnico assai meno convincente dell’esito di uno scontro diretto. Si aggiunge poi un altro problema: ammesso e non concesso che i referendum abbiano dei contenuti destinati a cambiare le cose è difficile spiegarli in termini corretti agli elettori. I sostenitori dell’abrogazione ricorreranno ai soliti slogan contro il precariato, la mancata sicurezza sul lavoro senza chiarire le conseguenze operative di una vittoria nella consultazione; la maggioranza non si farà coinvolgere nella difesa di norme di cui non gliene può fregar di meno, ma paradossalmente potrà avvantaggiarsi se sarà attaccata strumentalmente sul piano politico per responsabilità che non la riguardano, in un conflitto in cui, per sconfiggere l’avversario non occorre mobilitarsi, ma stare a guardare che il suo cadavere passi lungo il fiume.

Landini e la narrazione post-referendum: una sconfitta da ribaltare

Rimane una domanda. Che cosa farà Landini quanto il referendum abortirà? Di certo, non avrà il coraggio di ammettere la sconfitta ma cercherà di imbonirci con le nuove teorie statistiche che ha elaborato in occasione dell’ultimo sciopero generale dell’anno scorso, quando mettendo a confronto le percentuali dei votanti con quelle degli aventi diritto tentò di dimostrare che la maggioranza uscita dalle urne in realtà non era tale, e quindi il governo non rappresentava la maggioranza del paese che invece si riconosceva nei 500mila lavoratori (stimati ad occhio) che erano scesi nelle piazze d’Italia il 29 novembre.

Ci aspettiamo quindi che Landini prenderà in considerazione il numero assoluto dei votanti per il Sì (che ovviamente saranno la netta maggioranza di coloro che si recheranno al seggio, essendo una stupidaggine andare per votare No aiutando così la Cgil a superare la tagliola del quorum); confronterà questo numero con quello dei voti conseguiti dalla coalizione di destra o di parte di essa nelle elezioni politiche, arrivando alla conclusione che la maggioranza degli italiani sta dalla sua parte. In tutti i programmi de La 7 (ormai divenuta la rete delle opposizioni) i conduttori non metteranno in discussione questa versione dei fatti. Perché Landini è l’ultimo dei Moicani.

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