C’era una volta la cinghia di trasmissione tra il Pci e la Cgil ma i tempi sono cambiati e, a differenza degli anni Cinquanta, ora è la Cgil che dà la linea ed è l’intendenza del Pd che segue. L’adesione della segretaria dl Pd, Elly Schlein, al referendum abrogativo del Jobs Act promosso dalla Cgil di Maurizio Landini ha esattamente questo segno. Ma rischia di non portare fortuna al Pd. Per almeno tre ragioni. In primo luogo perché tutti i sondaggi, attualmente disponibili, segnalano che molto difficilmente il referendum raggiungerà il quorum e che la Cgil e la sinistra rischiano una sconfitta referendaria esattamente come 40 anni fa sulla scala mobile. La seconda ragione che alimenta le perplessità dei riformisti del Pd, che a suo tempo votarono compattamente a favore del Jobs Act del Governo Renzi, è che – malgrado lo scetticismo dell’ala massimalista della sinistra politica e sindacale – il Jobs Act, dati Istat alla mano, non solo non ha aumentato la disoccupazione e la precarietà ma ha fatto esattamente il contrario: ha contribuito a creare un milione di posti di lavoro in più e i contratti di lavoro a tempo indeterminato sono cresciuti. La terza ragione che fa correre alla Cgil e al Pd il rischio di boomerang è che l’abrogazione del Jobs Act ridurrebbe le garanzie a favore dei lavoratori in quanto il periodo di risarcimento di un ingiusto licenziamento scenderebbe da 36 mesi (modello Jobs Act) a 24 mesi. Per il Pd vale davvero la pena di pagare un prezzo così alto per immolarsi sull’altare dell’abbraccio a senso unico con Landini e Giuseppe Conte? In molti pensano proprio di no.
Referendum Jobs Act: il sì della Schlein ribalta la cinghia di trasmissione a favore della Cgil ma rischia il boomerang
Imagoeconomica