L’approssimarsi del voto referendario sulla riforma costituzionale ha riaperto il dibattito sulla libertà di espressione del magistrato: quali sono gli spazi pubblici entro i quali un giudice può intervenire per manifestare la sua opinione? Al singolo magistrato vanno riconosciuti gli stessi diritti attribuiti a qualsiasi cittadino – o meglio egli può esercitare tali diritti con la medesima ampiezza riconosciuta a chi non esercita la sua professione – o il ruolo istituzionale che egli svolge lo obbliga ad una particolare riservatezza ed un atteggiamento di self-restraint che non compete invece agli altri appartenenti alla collettività?
Posta così, la domanda ci sembra davvero mal formulata e la risposta quasi obbligata. La possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero rappresenta un diritto fondamentale per il singolo senza dimenticare che la stessa democrazia vive del confronto dialettico fra le diverse opinioni di cui i cittadini sono portatori; di conseguenza, pare incongruo e paradossale sostenere che il magistrato – spesso, peraltro, portatore di competenze la cui diffusione può senz’altro contribuire al miglioramento del livello culturale e tecnico del dibattito e la cui mancata circolazione nel pubblico rappresenterebbe perciò una rinuncia difficilmente comprensibile -, per il solo fatto di esercitare una professione che si connota per la terzietà ed imparzialità di chi la svolge, debba tacere e rinunciare a formulare con chiarezza la propria opinione su temi che ritiene di suo interesse e che investono la sua partecipazione alla vita della collettività cui appartiene.
Certo, est modus in rebus: il diritto alla libera espressione del proprio pensiero non è senza limiti – come da tempo insegna la nostra Corte costituzionale, la quale tuttavia, e non a caso, è molto prudente nel limitare l’esercizio di tale facoltà, consapevole del fatto che porre troppi paletti al diritto in parola può determinare un inaccettabile detrimento dello stesso dibattito pubblico – e, al pari di quanto vale per ognuno, in nessun modo il magistrato può abusarne.
Non solo: il sistema processuale, tanto in ambito civile che penale, conosce e prevede strumenti (come quelli della ricusazione o, vista dalla parte del magistrato, dell’astensione) mediante i quali la parte privata che ritenga che il giudice, in ragione delle considerazioni e delle opinioni personali che lo stesso ha formulato in altri ambiti, possa essere portatore di pregiudizi nei suoi confronti o con riferimento alla questione da decidere nella aule giudiziarie può chiedere l’attribuzione del processo ad un altro soggetto, sicché anche mediante tali istituti è possibile conciliare l’esigenza di preservare la posizione di imparzialità del giudice con il suo diritto ad esternare liberamente le proprie convinzioni.
A fronte di queste considerazioni, viene allora quasi da stupirsi che da più parti si contesti al magistrato il diritto di esprimersi ed anzi, nell’attuale contingenza storica, i dubbi sulla possibilità del magistrato di formulare le proprie opinioni sembrano ancora più ingiustificati: l’odierno dibattito infatti è originato da alcune “esternazioni” di appartenenti all’ordine giudiziario sulla proposta di riforma costituzionale ovvero su un tema di interesse generale ed in ordine al quale da un lato a nessun cittadino dovrebbe essere precluso di intervenire e dall’altro non si comprende in che termini il magistrato che formuli una propria opinione sul punto vedrebbe compromessa la sua doverosa imparzialità.
Per certi aspetti, queste affermazioni – alla luce delle osservazioni che abbiamo formulato in precedenza – ci sembrano incontestabili, ma al contempo non possiamo fare a meno di sottolineare come l’intervento di un magistrato all’interno di un pubblico dibattito rischi di inquinarne il contenuto se colui che interviene non precisa a che titolo ed in quale veste formula la propria opinione.
Spieghiamolo meglio. In qualsiasi situazione un appartenente all’ordine giudiziario può intervenire in una duplice veste o come cittadino o come, appunto, magistrato. E’ evidente, infatti, che laddove si discuta – ad esempio – della riforma del reato di falso in bilancio, il pubblico ministero che scrivesse un articolo su un quotidiano parlerebbe sì a titolo personale e certo non potrebbe essere considerato espressione della magistratura, ma al contempo la sua opinione assumerà senz’altro un peso affatto particolare, in ragione delle sue competenze, della sua esperienza, della sua storia personale. In casi del genere, in sintesi, il magistrato, intervenendo, fa gravare sul dibattito pubblico il peso della sua autorevolezza influenzandone anche lo svolgimento ed il contenuto: in tale circostanza, però, non vi è nulla di censurabile, proprio perché dalla stessa inerenza delle questioni su cui si discute all’esercizio della giurisdizione ed al lavoro della magistratura deriva in via logica e naturale che sia assolutamente legittimo che sulle soluzioni normative da assumere si esprime chi quegli argomenti meglio conosce e di quelle vicende ha fatto la sua professione.
In altri casi e con riferimento ad altre tematiche, però, il magistrato non è portatore di alcun sapere particolare, di nessuna competenza esclusiva, sicché in tali ipotesi l’opinione di chi esercita la professione di pubblico ministero o di giudice della famiglia o di giudice fallimentare ecc. dovrebbe contribuire allo svolgimento del confronto al pari delle considerazioni formulate da qualsiasi altro cittadino. Si pensi – per riferirsi ad un altro referendum – al dibattito sulle trivellazioni in mare, argomento rispetto al quale sarebbe parossistico sostenere che un magistrato, siccome un domani potrebbe essere chiamato a pronunciarsi su una vicenda che origina dalla presenza delle acque territoriali di queste strutture petrolifere, non possa esprimersi a favore o contro il loro mantenimento: in tali ipotesi, il magistrato deve potersi esprimere liberamente al pari di ogni cittadino ma con l’accortezza – accortezza la cui osservanza in verità non compete solo al giudice ma a tutta la collettività, ed in specie ai mass-media che ne riportano l’opinione – di non attribuire al suo pensiero una autorevolezza, una significanza che deriva dalla professione che egli svolge, dai rischi che ha corso e dai sacrifici che ha fatto nel corso della sua attività professionale, dalle competenze che ha acquisito, profili che nel caso di specie – proprio in ragione della distanza contenutistica che corre fra l’oggetto del dibattito e l’esercizio della professione giurisdizionale – non hanno alcun rilievo.
Ecco, il rischio di un intervento del singolo magistrato nel confronto sulla riforma costituzionale – la quale non tocca, se non in maniera decisamente marginale e solo ipotetica, la magistratura – è proprio che questi – pur senza volerlo – venga ad “inquinare” il dibattito con considerazioni non pertinenti, finisca cioè per far pendere la bilancia a favore delle tesi da lui sostenute non in ragione degli argomenti e delle ragioni da lui esposte, ma in considerazione della stima e dell’autorevolezza che (giustamente) circondano la sua persona – profili senz’altro apprezzabili, ma che, come detto, non attengono alla questione di cui si discute.
Si dirà: a seguire questa prospettazione parlare o non parlare per il giudice diventa allora questione di opportunità ed in quanto tale è assai opinabile il giudizio formulabile sulla condotta di magistrati che scelgono di manifestare la propria opinione.
Certo, nel caso di specie, con riferimento alla prossima riforma costituzionale, il comportamento di chi esercita funzioni giudiziarie deve essere governato solo da considerazioni di mera opportunità e sicuramente non hanno legittimità le critiche (se non addirittura le censure) che sono state mosse a quanti fra costoro hanno scelto di pronunciarsi. Al contempo però in tale giudizio di opportunità i profili che vengono ad essere interessanti non sono di poco momento: in fin dei conti, uno dei rimproveri che – giustamente – si formula al premier Renzi è di aver impropriamente trasformato il dibattito sui contenuti della riforma in un plebiscito sulla propria persona; sarebbe bene, allora, che almeno la magistratura sapesse, per quanto le compete, mantenere la discussione negli ambiti che gli sono propri, senza inopportuni condizionamenti dell’opinione pubblica.