Una crisi economica devastante e una disoccupazione, generale e giovanile, inimmaginabile fino a qualche anno fa, con milioni di italiani che, secondo i dati ISTAT, vivono ormai al di sotto della soglia di povertà, fanno ormai pensare alla necessità per lo Stato di individuare soluzioni di protezione dei soggetti più deboli tali da garantire quella liberazione dal bisogno e dalla povertà, che è alla base dei principi solidaristici delle società occidentali perlomeno dall’ Illuminismo e dalla rivoluzione francese in poi, e sono il fondamento del Welfare State.
Per decenni, grazie al dilatamento della spesa pubblica e del debito, si sono fronteggiate le situazioni critiche ricorrendo ad ammortizzatori sociali quasi del tutto sconosciuti negli altri Pesi europei : mentre questi ultimi introducevano i redditi e i salari minimi garantiti, noi facevamo ricorso alle baby pensioni, alle facili pensioni di invalidità, ai prepensionamenti a 45/50 anni di età, ai contributi pensionistici figurativi e agricoli, alle pensioni sociali, alla cassa integrazione a tempo indeterminato, ai lavori socialmente utili per i disoccupati organizzati e quant’altro.
Oggi, a buoi ormai scappati dalla stalla (visto il livello del debito pubblico e della spesa corrente), si è aperto il dibattito, con una grande attenzione dei media e dell’ opinione pubblica, su come contrastare la povertà ricorrendo al modello sociale del reddito di cittadinanza o del reddito minimo garantito.
E’ chiaro che qualsiasi provvedimento venisse individuato ed adottato non potrà che essere a carico della fiscalità generale (o della spending review ?), in una situazione già di pesante tassazione per i produttori di redditi da lavoro (piccoli imprenditori, lavoratori subordinati e parasubordinati, autonomi, artigiani).
Uno degli aspetti principali che deve essere valutato è come prevedere meccanismi di accesso al contributo economico, per evitare che un reddito minimo garantito dallo Stato porti a disincentivare la permanenza al lavoro dei produttori di reddito da lavoro (e quindi del reddito da ridistribuire con la fiscalità generale) : se si viaggia a salari inferiori a mille euro al mese (condizione retributiva oggi diffusa tra i giovani precari e a part-time) la scelta tra un reddito da lavoro ed un reddito garantito può diventare di poco interesse.
Innanzitutto è necessario chiarire su cosa si intende per “reddito di cittadinanza” e per “reddito minimo garantito” :
– il reddito di cittadinanza è un contributo finanziario dello Stato libero dalla imposizione fiscale che, a determinate scadenze temporali, viene erogato, a livello individuale, a tutti i cittadini, a volte sin dalla nascita, ed eventualmente anche ai residenti nel Paese da un certo numero di anni, indipendentemente dallo stato di bisogno e di occupazione, dalla composizione del nucleo familiare e da altri redditi patrimoniali. Il reddito di cittadinanza avrebbe dunque il vantaggio, proprio perché erogato a tutti, di non impattare sulla decisione di lavorare o meno, ma lo svantaggio evidente di essere estremamente oneroso per le casse dello Stato.
– il reddito minimo garantito, è un sostegno economico, variabile in funzione della composizione familiare, che viene erogato a chi non ha un reddito da lavoro, con la condizione che il reddito familiare complessivo sia inferiore a certe soglie (povertà o stato di bisogno). Generalmente l’ importo economico erogato è affiancato da contributi assistenziali per l’ affitto, il riscaldamento, la scuola, ecc. Questo tipo di intervento ha uno svantaggio evidente in relazione all’ ammontare dell’ importo : più è vicino ad un reddito da lavoro, più alcune persone potrebbero scegliere di non lavorare e di spendere gli assegni statali non in istruzione o prodotti essenziali ma in beni voluttuari, fenomeno cui non sono esenti alcuni Paesi del Nord Europa.
A differenza del reddito di cittadinanza vero e proprio, che si intende universale e illimitato nel tempo, il reddito minimo garantito riguarda dunque una platea delimitata di beneficiari ed è collegato non necessariamente al solo individuo ma alla situazione economica complessiva del nucleo familiare.
Poiché entrambi queste due tipologie di contributo statale vengono concesse a tutti coloro che sono in possesso della cittadinanza o della residenza, anche il reddito minimo garantito è comunque un reddito di cittadinanza : da qui l’ uso indifferenziato dei due termini nel dibattito politico corrente.
Peraltro nelle proposte di legge che in questi giorni vengono incardinate alla Commissione del Lavoro del Senato, la corresponsione del sostegno economico verrebbe subordinata, oltre che alla situazione complessiva del reddito familiare, anche alla ricerca attiva del lavoro da parte dell’ interessato e decadrebbe dopo un certo numero di rifiuti a congrue proposte di impiego presentate dalle agenzie del lavoro preposte : si potrebbe quindi parlare più propriamente di reddito di inoccupazione da erogare a coloro che hanno perso il lavoro, e ai quali è scaduta la NASPI( la nuova indennità di disoccupazione), e a coloro che sono disoccupati o inattivi da lungo tempo.
Nei Paesi europei, con l’ esclusione della Grecia, dell’ Ungheria e nostra, da anni sono in atto programmi statali contro la povertà che prevedono erogazioni economiche mensili al nucleo familiare (integrate generalmente da interventi sull’ affitto, sulle spese di riscaldamento o sanitarie e scolastiche), che vanno dai circa 450 euro per una persona sola ai 900 euro per una coppia con due figli della Francia, e negli stessi casi, dai 345 euro ai circa 1000 euro della Germania, dai 680 euro ai 1600 euro della Gran Bretagna, per arrivare dai circa 1500 euro ai 3300 euro della Danimarca.
Nel nostro Paese si è tentato più volte di introdurre, in via sperimentale, in alcuni comuni una prestazione di sostegno (insieme economico e di servizio) che si muovesse nella direzione del reddito minimo di cittadinanza, seppure con l’ obiettivo di promuovere il passaggio del beneficiario dalla tutela assistita all’ occupazione.
La scarsità delle risorse economiche disponibili ha, sino ad ora, reso però difficile il consolidamento e l’ estensione di queste sperimentazioni per costruire a livello generale una prestazione assistenziale contro la povertà che garantisca un trasferimento di ricchezza strutturale verso tutti i cittadini che versano in uno stato di bisogno effettivo.
È sufficiente ricordare che l’ unico intervento universale adottato in questi anni è la social card ordinaria per la spesa alimentare di 40 euro mensili, mentre dallo scorso anno è stato avviato un progetto per introdurre, in via sperimentale, nelle 12 città italiane con più di 250.000 abitanti un nuovo sussidio contro la povertà, il Sia (Sostegno per l’inclusione attiva)
Il Sia non è solo un sostegno economico ai cittadini più poveri, ma un progetto ben più ampio di inclusione sociale attiva: lavorativa per gli adulti, scolastica per i bambini, sociale e sanitaria per tutta la famiglia.
L’ammontare mensile del contributo economico ai beneficiari è modulato sulla base dei componenti il nucleo familiare e può arrivare sino a 400 euro mensili per le famiglie con 5 o più componenti.
L’ erogazione del beneficio economico avviene tramite una normale carta di pagamento elettronico, denominata Carta Acquisti Sperimentale e intestata al capo del nucleo familiare, per gli acquisti di generi alimentari, prodotti farmaceutici e parafarmaceutici ed il pagamento delle bollette domestiche di gas e luce. Le spese effettuate con tale Carta sono addebitate e saldate direttamente dallo Stato, entro i limiti stabiliti, anziché essere addebitate al titolare della Carta.
Il progetto del Sia è stato elaborato alla fine del 2013 da una Commissione di esperti, tra cui il Prof. Tito Boeri, attuale Presidente dell’ Inps, e presieduta dalla senatrice Guerra, all’ epoca sottosegretario al Welfare del governo Letta, ed al momento le risorse stanziate ammontano a circa 120 milioni di euro nell’ arco di tre anni.
Se, terminata in modo positivo la fase sperimentale, il progetto fosse esteso su base nazionale, il costo a carico dello Stato, come calcolato dalla stessa Commissione, sarebbe di circa 7-8 miliardi di euro all’ anno, un costo grosso modo analogo a quello degli 80 euro, ma forse con un impatto maggiore sui consumi primari interni.