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Reddito di cittadinanza flop: non bastano ritocchi ma serve una svolta

Imagoeconomica Paolo Cerroni

Con il reddito di cittadinanza, cioè con un sussidio universale indifferenziato, i Cinque Stelle pensavano di potere affrontare e risolvere tre problemi che sono fra di loro molto diversi: quello del contrasto alla povertà assoluta, quello del sostegno al reddito dei lavoratori temporaneamente disoccupati e quello, assai più rilevante, dell’occupazione o rioccupazione dei giovani e dei lavoratori disoccupati. Così ovviamente non è stato, né poteva essere.

Per contrastare davvero la povertà assoluta il sussidio non basta. Servono misure efficaci di contrasto all’emarginazione sociale e al degrado ambientale che alimentano la povertà. Sussidio più assistenza sociale: questa è la formula che le associazioni che operano in questo campo avevano suggerito al governo Gentiloni e che aveva trovato una prima concretizzazione nel reddito di inserimento. Ma i Cinque Stelle, che di povertà assoluta nulla capiscono, hanno preferito sostituirlo con il reddito di cittadinanza, cioè con un sussidio che non impegna chi lo eroga a farsi carico anche dell’assistenza. Il risultato è che, a verificare del corretto utilizzo del sussidio, non sono più gli assistenti sociali ma la Guardia di Finanza. Una regressione alla quale sarebbe bene porre rimedio ripristinando, se non nel nome, almeno nella sostanza, il reddito di inserimento.

Anche nel sostegno al reddito dei lavoratori temporaneamente inoccupati, il reddito di cittadinanza si è rivelato uno strumento superfluo. Le cause della disoccupazione temporanea sono molte e molto diverse tra di loro e richiedono misure di contrasto ad hoc. Ad esempio, la disoccupazione temporanea dovuta ad un calo della domanda si contrasta con la cassa integrazione ordinaria; quella conseguente alla ristrutturazione dell’impresa, con la cassa integrazione straordinaria; mentre, quella per crisi o per cessazione di attività, la si fronteggia con la cassa integrazione per crisi. A quest’ultima si è poi affiancata negli anni la cassa integrazione in deroga, che non richiede alcuna motivazione particolare che non sia quella addotta di volta in volta dal governo per prolungare la tutela del reddito dei lavoratori di imprese altrimenti destinate alla chiusura, come Alitalia, Whirlpool e Ilva.

Anche i lavoratori a tempo determinato, quelli a progetto e gli stagionali dispongono di strumenti di tutela del reddito per i periodi di disoccupazione. Casomai si potrebbe implementarli destinando ad essi maggiori fondi e rendendoli accessibili a tutti i lavoratori precari e non soltanto a quelli di alcuni settori. In generale, come detto prima, in nessuno di questi casi il reddito di cittadinanza si è rivelato utile o necessario. Si poteva benissimo farne a meno.

L’unico terreno su cui avrebbe dovuto rivelarsi utile e necessario è quello dell’occupazione giovanile e del reimpiego dei lavoratori disoccupati ma è proprio su questo terreno che il suo fallimento è stato più clamoroso e, per certi versi, inescusabile. La ragione di questo fallimento è che il governo giallo-verde prima e quello giallo-rosso poi, non hanno saputo o voluto affrontare il vero problema che si pone e che è quello di una radicale riforma del mercato del lavoro. I ritocchi non bastano più. E non servono nemmeno i diversivi, come il reddito di cittadinanza o i navigator. Quello di cui ci sarebbe bisogno è un cambio di paradigma, una vera e propria rivoluzione copernicana. Il mercato del lavoro italiano non è attrezzato per gestire la trasformazione epocale che ha investito il mondo del lavoro. Semplicemente non è in grado di farlo. È un mercato basato su presupposti che non esistono più: il posto di lavoro fisso e possibilmente a vita, la formazione una tantum attraverso l’apprendistato, la gestione pubblica del collocamento, una contrattualistica estremamente complicata ma sempre più lontana dalla realtà aziendale, ecc…

Passare da questi presupposti, così profondamente radicati nella mentalità di una parte del paese, all’idea che il posto fisso e a vita non potrà più essere la regola ma sarà l’eccezione, che la formazione non potrà più essere una tantum ma che dovrà essere continua e che la flessibilità e la mobilità, lungi dal mettere in pericolo il lavoro, saranno sempre di più la condizione per garantirlo, non è facile. Ma è assolutamente necessario farlo, e farlo adesso, non solo perché siamo già in grave ritardo, ma anche perché adesso, con il governo Draghi e con il recovery plan, si è creato uno spazio politico ed economico estremamente favorevole per farlo. Quella del mercato del lavoro non è del resto una riforma che richiede chissà quali ulteriori approfondimenti. Se ne discute da anni e le linee guida sono abbastanza chiare. Si deve anzitutto investire – e tanto! – nella formazione continua, dotando il paese di una fitta rete di centri di formazione altamente qualificati (come si fece a suo tempo con gli ITTS) e si deve investire altrettanto nella creazione di una fitta rete di centri per l’impiego, davvero degni di questo nome.

Questo significa che i centri per l’impiego non devono essere i cloni dei vecchi uffici di collocamento ma delle agenzie che si collocano all’esterno della Pubblica Amministrazione e dotate di un personale altamente professionale e qualificato. I centri per l’impiego devono poter agire d’intesa con le agenzie private, devono poter reclutare sul mercato il personale di cui hanno bisogno e devono erogare dei servizi per i quali devono essere remunerati. Favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro e fra le necessità delle imprese e la formazione professionale, è un’attività tutt’altro che semplice. Per questo ci vorrà del tempo e per questo dovremmo poter contare anche sul contributo delle agenzie private che questa esperienza ce l’hanno e che perciò vanno incoraggiate e non osteggiate.

Da quello che trapela sembrerebbe che, sia pure tra ambiguità e incertezze, sia questa la direzione nella quale il governo intenderebbe muoversi. Se così davvero fosse sarebbe un bene per il paese.

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