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Recovery Plan, Clò: “Attenzione a non diffondere illusioni”

Imagoeconomica

La transizione energetica come salto di qualità intergenerazionale, punto centrale del programma del governo Draghi, anche se “dovremo cambiare drasticamente i nostri stili di vita e dubito che la popolazione sia pronta a farlo”, dice a FIRSTonline il professor Alberto Clò, direttore di Rivista Energia – fondata insieme a Romano Prodi – e già Ministro dell’Industria e del Commercio estero.

Roberto Cingolani, Ministro della Transizione ecologica, in questi giorni è super attivo nell’ascolto di industriali, esperti, associazioni, per mettere a punto il piano da presentare al Parlamento. Con l’obiettivo di ridisegnare il Paese in chiave sostenibile, toccando materie passate sotto la sua responsabilità da altri Ministeri, Cingolani ha stimato investimenti di circa 80 miliardi di euro. Ma non c’è dubbio che la parte più difficile da realizzare sarà il passaggio alle fonti rinnovabili, tra cui il Ministro ha inserito il nucleare di nuova generazione e l’idrogeno in virtù di uno specifico progetto dell’Unione europea. Ma l’Italia è davvero pronta a sostenere una sfida così alta? E sono sufficienti i tempi del Recovery plan al 2026 per impegnare i fondi europei, in uno scenario complesso? Ne abbiamo parlato con il professor Alberto Clò.

L’istituzione del Ministero della Transizione ecologica ha generato in milioni di italiani la speranza di un nuovo modello di sviluppo, certamente più sostenibile. Ma è davvero così facile abbandonare le fonti fossili? 

“Non so se sia stata sufficiente una modifica delle competenze ministeriali per suscitare in milioni di italiani la speranza che si realizzi un modello di sviluppo più sostenibile, termine tanto abusato da perdere di significato. Quel che si intende come ‘transizione energetica’ – a indicare il passaggio dal dominio delle fossili a quello delle rinnovabili – è una vera e propria rivoluzione: nelle cose che produciamo e nelle modalità con cui le produciamo; nei modi in cui ci spostiamo; nei cibi che mangeremo e via andare. Dovremo cambiare drasticamente i nostri stili di vita e dubito che la popolazione sia pronta a farlo. Sono processi che richiedono tempi lunghissimi non comprimibili nell’arco di pochi decenni. Dalla Conferenza di Rio de Janeiro delle Nazioni Uniti, che per prima fissò una qual sorta di collaborazione internazionale per abbattere le emissioni di gas serra, le cose non sono sostanzialmente cambiate. La quota delle fossili da venti anni in qua è rimasta inchiodata all’80% contro nemmeno il 2% delle nuove rinnovabili (solare ed eolico), mentre nella generazione elettrica le fossili pesano per il 64%. Capovolgere questi rapporti è maledettamente difficile e soprattuto costoso. Dire le cose come stanno penso sia il comportamento da seguire, evitando di diffondere illusioni”. 

Addirittura, si dice, si produrrà l’acciaio solo con le rinnovabili...

“Produrre acciaio tramite idrogeno tratto da risorse rinnovabili (cosiddetto idrogeno verde) è tecnicamente possibile (come dimostrano iniziative di tal tipo avviate nel 2016 in Svezia ma previste divenire commerciali nel 2040), ma molto complesso e costoso. Si tratta di modificare radicalmente la stessa concezione di fare impresa, di cultura aziendale; l’idrogeno andrebbe prodotto a non eccessiva distanza. Insomma, vi sono mille condizioni perché questa riconversione possa avvenire, quella dei lunghi tempi è anche qui dirimente.

L’Italia ha sufficienti tecnologie per affrontare la strategia delineata dal Ministro Cingolani in Parlamento?

“Domanda non facile, risposta ancor meno. Vi sono nicchie in cui siamo presenti, ma se penso alle rinnovabili che abbiamo sussidiato per molte e molte decine di miliardi con le bollette dei consumatori, senza però che ne sia nata una presenza industriale nazionale, beh vedo le prospettive non esaltanti. Penso che nelle tecnologie di frontiera, quale quella dell’idrogeno o delle batterie, sarebbe opportuno un impegno comune a livello almeno europeo, evitando di dar soldi sotto la pressione di interessi costituiti”.

Quanto è credibile un Recovery plan al 2026 che mette tra le fonti rinnovabili l’idrogeno, il cui utilizzo su larga scala si annuncia alquanto complesso?

“Il problema è innanzi tutto quello di redigere un Recovery Plan credibile nei contenuti, specie riguardo alle sue modalità e ai tempi di implementazione. Insomma, che sia l’opposto di quello approvato dal nostro Governo il 12 gennaio. A vagliarlo dovrà essere Bruxelles sotto l’occhio severo degli Stati membri del Nord, che giustamente si chiederanno come faremo ad attingere ai fondi del NGEU mentre siamo incapaci di utilizzare i fondi di coesione europei. Insieme ai contenuti, per essere credibili agli occhi europei, dovremo istituire una ‘cabina di regia’ (richiesta dalle stesse regole europee) che è tutta da disegnare e realizzare. Così come nella drammatica esperienza della pandemia i governi si sono avvalsi del parere del Comitato Tecnico Scientifico del Ministero della Sanità, mi sembrerebbe opportuno che anche nel caso delle politiche climatiche si istituisse un Comitato Tecnico indipendente e non ci si basasse solo sul giudizio degli interessi costituiti”. 

Il sistema industriale italiano è pronto a recepire le indicazioni del Next Generation Eu?

“Per rispondere dovrei conoscere le proposte che usciranno dalla nuova versione del Recovery Plan. Sinora mi sembra si sia parlato di tutto e di più. Sulle proposte hanno pesato interessi particolari non sempre coincidenti con quelli generali. Penso sia dirimente la selettività dei progetti, sapere chi vi contribuirà con proprie risorse o se si spera solo di attingere a mani basse a quelle europee, e- non ultima-  quali costi ricadranno sulla collettività che la gravissima crisi che stiamo attraversando ha già colpito duramente. Nonostante i consumi di energia siano calati, le bollette continuano a lievitare, riducendo ulteriormente il potere di acquisto delle famiglie. Mentre i bilanci delle imprese registrano aumenti degli utili”.

L’ultimo Rapporto sull’economia circolare in Italia 2021, mette l’Italia al primo posto in Europa. Però è al quarto posto per brevetti, che vuol dire ricerca e scienza. Qual è il Suo giudizio?

“La spesa in ricerca e sviluppo nel campo dell’energia è estremamente bassa anche in raffronto ai Paesi esteri. Per questo ritengo che uno sforzo internazionale sia da perseguirsi, mettendo a fattor comune le nostre eccellenze scientifiche e industriali. Quanto all’economia circolare l’importante è che sia effettivamente tale, come confermano alcune realtà industriali”.

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