Perché il Recovery Fund sì e il Mes no? Prima o poi qualcuno dovrà spiegare questo paradosso. Nei mesi scorsi il premier Giuseppe Conte ha ripetuto più volte che il Fondo salva-Stati “non è uno strumento adeguato” per affrontare la crisi e che ciò di cui il Paese ha bisogno è il Recovery Fund. Ora, se confrontiamo le dotazioni finanziarie è senz’altro così: dal piano approvato martedì l’Italia incasserà 208 miliardi, mentre il Mes ne vale solo 36. Se però guardiamo alle regole da rispettare per accedere ai due strumenti, la storia cambia, ma non sta scritto da nessuna parte che i due fondi siano tra loro incompatibili.
Il Movimento 5 Stelle, con il supporto dall’opposizione di Lega e Fratelli d’Italia, si scaglia contro il Fondo salva Stati affermando che, in caso d’attivazione, saremmo costretti a rispettare una serie di obblighi sfavorevoli. Eppure, in realtà, il Mes prevede condizioni molto più leggere rispetto al Recovery Fund.
LE REGOLE DEL MES…
Dopo la riforma approvata ad aprile, i Paesi che chiedono soldi al Fondo salva Stati devono rispettare un solo vincolo: impiegare quelle risorse per le esigenze sanitarie legate all’emergenza Covid. I fondi si possono usare per spese dirette (ad esempio l’acquisto di attrezzature o l’assunzione di medici e infermieri), ma anche “indirette”, una formula volutamente ambigua che consente di coprire investimenti nei settori più diversi (in teoria, potremmo usare quei soldi anche per pagare i banchi singoli necessari a garantire il distanziamento anti-contagio nelle scuole). Infine, i prestiti del Mes – da restituire in 10 anni con un interesse dello 0,1% – si potrebbero incassare nel giro di poche settimane e i controlli di Bruxelles arriverebbero ex post, ovvero con una rendicontazione da parte dell’Italia ad acquisti fatti.
…E QUELLE DEL RECOVERY FUND
Per accedere ai soldi del Recovery Fund, invece, sono previste “condizionalità” ben più stringenti.
Innanzitutto, bisogna “allinearsi alle raccomandazioni ricevute da Bruxelles”, ha chiarito la numero uno della Commissione, Ursula von der Leyen. “Finora dipendeva solo dai Paesi rispettarle o meno, ma ora le raccomandazioni sono legate a sussidi e crediti”. E quindi diventano ordini.
I governi devono impegnarsi a rispettare le indicazioni dell’Ue, spiegando come e quando intendono farlo in un documento ufficiale, il Programma nazionale delle riforme, che deve essere approvato dalla Commissione europea e dall’Ecofin (quest’ultimo a maggioranza qualificata, ossia almeno 15 Paesi su 27, purché insieme rappresentino come minimo il 65% della popolazione europea).
Stavolta però mettere su carta una serie di promesse non basta: bisogna anche rispettarle, altrimenti il rubinetto degli aiuti si può chiudere da un momento all’altro. Grazie a un meccanismo chiamato “freno d’emergenza”, l’esborso dei soldi viene interrotto se uno o più Stati ritengono che il Paese beneficiario si stia discostando dagli impegni assunti, ovvero non stia rispettando il Pnr. Il caso viene poi discusso in Consiglio, anche se l’ultima parola sui fondi spetta comunque alla Commissione. L’intero processo dura al massimo tre mesi e non prevede alcun diritto di veto, ma può trasformarsi comunque in un’arma politica per condizionare i governi sulle riforme.
Quanto ai tempi, i finanziamenti non arriveranno prima del secondo trimestre del 2021, ma i Paesi potranno usarli anche per coprire retroattivamente le spese sostenute a partire da febbraio.
Alla luce di tutte queste differenze, l’attivazione del Recovery Fund rischia di produrre un effetto apparentemente paradossale, quello di rafforzare la posizione di chi è favorevole al fondo salva-Stati (Pd, Italia Viva, Forza Italia, Confindustria). A meno che, nel frattempo, qualcuno fra Conte e i grillini non trovi una risposta convincente, che finora non c’è, alla domanda dell’estate: perché il Recovery Fund sì e il Mes no?