Non c’è nessuno come Giuseppe De Rita con il suo Censis in grado di dare un senso ai mutamenti della società italiana, dagli strati limacciosi del profondo alle increspature che ne annunciano le novità. La sociologia di De Rita si nutre di statistiche e le trasforma in una narrazione dallo stile che ha fatto scuola, e ogni anno produce un monumentale “Rapporto sulla situazione generale del paese” – reso pubblico stamattina alle 10 nella sede del Cnel – che offre infinite tematiche di riflessione a classe politica, operatori economici, riformatori e istituzioni. Delle 500 e più pagine del Rapporto, De Rita offre sempre una suggestione che le riassume: una bussola per la lettura, un viatico per non perdersi, un “superTag” che rappresenta il carattere dominante dell’anno, spesso un’immagine tirata fuori dal suo cappello da sociologo-illusionista.
Quest’anno i caratteri sono due: il “capitale inagito”, e “le giare”.
Cominciamo con il primo. La società italiana raccontata dal Censis ha lasciato da parte la paura della crisi che l’ha paralizzata negli ultimi anni, ed è aumentata di ben 12 punti, al 47 per cento, la porzione di quanti pensano che il peggio sia alle spalle. Questo non vuol dire però che prevalga l’ottimismo. Anzi. Il clima generale è piuttosto l’attendismo. Brutta malattia, perché vuol dire ripiegamento e difesa. Lo si vede sui soldi: dal 2008 al 2013 il portafoglio delle attività finanziarie è diminuito, tranne il circolante. La gente ha aumentato le disponibilità liquide (dal 27 al 31 per cento del portafoglio) per averle a portata di mano, pronto cassa. E lo si vede anche sulla seconda strategia messa in campo per adattarsi ai tempi: il ritorno al sommerso, all’economia in nero.
Che cosa hanno fatto le imprese? La parte che dovrebbe essere più trainante del paese ha messo da parte il verbo intraprendere e ha declinato il verbo accumulare. Dal 2007 al 2013 c’è stato un crollo record degli investimenti pari a 333 miliardi di euro (e dire che adesso riponiamo le nostre speranze sui 300 miliardi di Junker, che neanche ci sono davvero!). Credete che questo sia dovuto al fatto che le imprese hanno dovuto stringere la cinghia? Niente affatto. Negli stessi anni il margine operativo lordo delle imprese “si è mantenuto elevato e a tratti crescente”, scrive il Rapporto, ma soprattutto è cresciuto il patrimonio netto disponibile delle imprese, fino a diventare 5,8 volte gli investimenti fissi lordi realizzati nell’anno. Così come sono cresciute le risorse liquide tenute in cassa (da 238 a 274 miliardi dal 2008 a oggi). Altro che credit crunch.
Il comportamento di questi due soggetti sociali già basta a spiegare perché il Censis parla di capitale inagito: intende quel giacimento di risorse potenzialmente ricco ma che resta inutilizzato, fermo, sterile. Cioè smette di essere capitale, resta solo un mucchio di soldi. Ed è quello che si riscontra nel paese anche sotto altri profili. Quello del capitale umano, per esempio, con il suo bacino di 8 milioni di individui (tra disoccupati, scoraggiati e inattivi disposti a lavorare), che rivela un’altra dissipazione di energie vitali, e quello del patrimonio culturale che non produce valore. Mentre Francia, Germania e Spagna creavano posti di lavoro nel settore culturale e accrescevano il suo valore aggiunto, da noi – primo paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco – il valore aggiunto del comparto cultura diminuiva e gli occupati crescevano sì ma a ritmo incomparabilmente più lento.
C’è poi la chiave di lettura delle giare. Cosa sono le giare nell’immaginario deritiano? Sono ambiti ricchi al loro interno ma non comunicanti, vasi belli panciuti ma chiusi. È lo specchio della società italiana di oggi ma anche delle forze che la influenzano, spariti come sono gli elementi di raccordo che c’erano in passato.
Sono infatti tramontati i “corpi intermedi”, dai partiti ai sindacati, ma anche il parlamento non sta tanto bene. Un dato per tutti: dalla fine del 2011 sono stati presentati dai vari governi che si sono avvicendati 82 decreti legge, di cui 72 sono stati convertiti, quindi modificati ulteriormente, il tutto con il risultato finale di testi che contengono un profluvio di norme con 1.185.1171 parole, che è 11,6 volte quelle contenute nella Divina commedia di Dante Alighieri.
La scomparsa dei corpi intermedi non ha prodotto una maggiore partecipazione sociale diretta, bensì il suo contrario, come si è visto alle ultime elezioni in Emilia-Romagna e Calabria, con l’astensionismo alle stelle. Insomma, la società è sempre più liquida. «E una società liquida rende liquefatto il sistema», dice De Rita, «che perciò diventa “asistemica”». Ma come si organizza una società che non crede più nel sistema? Ecco le giare, cioè i mondi diversi non comunicanti fra di loro. Il Censis ne individua sette.
La prima giara è quella della grande finanza internazionale, potentissima, e che segue le sue logiche di profitto completamente avulse dalle necessità e dalle aspettative nazionali, impossibile influenzarla. La seconda giara è il mondo della politica nazionale, con il primato rivendicato da Matteo Renzi, ma con due limiti vistosi: le manca il potere di condizionare – verso l’alto – le politiche comunitarie; non ha immediato potere verso il basso, sulla pubblica amministrazione e sui comportamenti collettivi. Tutto questo rischia di “confinarla al gioco della sola politica”.
Nella terza giara c’è l’amministrazione pubblica e le istituzioni: “Abbiamo grandi strutture ormai letteralmente vuote di competenze e di personale”, scrive il Censis, “grandi ministeri il cui funzionamento è appaltato a società esterne di consulenza o di informatica; abbiamo strutture pubbliche che sono ambigue proprietà di principati personali” (la Cdp?)… che non danno più un servizio né alla politica né verso la società.
Ma anche quella minoranza attiva fatta di imprenditori capaci e vitali, quella parte viva del paese che il Censis aveva decantato negli anni passati è finito in un giara: sempre più rinchiusi nelle proprie logiche, nella sfida competitiva che devo affrontare, individualisti ed egoisti: “è vitalità senza efficacia collettiva”, così li bolla il Rapporto. E siamo alla quinta giara, quella della “gente” (il gentismo è un fenomeno di nuovo conio), che non va avanti né indietro, non ha speranza di migliorare la sua posizione, ma non ha ancora preso atto del suo declino; può incubare, però, nuove disuguaglianze e un pericoloso scontento, ma oggi come oggi sembra piuttosto esposta a una “deflazione delle aspettative”, che altro non è che una trasposizione sul piano sociale del fenomeno che già registriamo sul piano economico e che è una malattia più pericolosa dell’inflazione.
Il questo quadro c’è anche un grande ritorno: il sommerso. Quel fenomeno che proprio il Censis quarant’anni fa scopriva come componente di sviluppo della società, ora torna come autodifesa, fuga dalla crisi, escamotage di adattamento. Sta nella sesta giara, e per sua natura questa zona grigia non colloquia con tutte le altre. Come non lo fa più neanche il mondo della comunicazione, collocato nel settimo e ultimo contenitore di questa società molecolare.
Apparentemente il mondo della comunicazione non è mai stato così ricco e potente, con la moltiplicazione di piani di partecipazione che si intersecano, con mille soggetti che interloquiscono tra di loro con Fb, Twitter, i blog e via dicendo. Eppure è come una bolla che cresce ma è sempre più autoreferenziale. Per i professionisti del ramo la comunicazione è soprattutto incardinata sul binomio “opinione-evento”, dice il Censis, e non si capisce più se abbia effettivamente “antenne protese a comprendere giorno per giorno i cambiamenti reali in corso nella società”. Quanto agli utenti della rete, “creano a getto continuo contenuti” ma parlano a se stessi: l’individuo si specchia nei media, di cui è contemporaneamente contenuto e produttore (tutto è selfie). Risultato: grande ed evidente presenza, limitata efficacia collettiva.
Cosa può rompere le sette giare, cosa può riportare al dialogo tutte le componenti che esse contengono? Qui De Rita lancia un messaggio a sorpresa: un’apertura di credito alla politica. Rompendo una tradizione che ha sempre visto il Censis “apolitico”, il Rapporto di quest’anno indica una via d’uscita dalla perdita di energia collettiva del sistema, dall’accettazione inerte dell’esistente, dal destino di una stabile mediocrità. L’azione della politica. Una politica però – precisa De Rita nelle pagine scritte di suo pugno – che sappia mostrare un’aderenza spietata alla realtà, che sia fedele alle nostre radici, che non abbia paura della dialettica per far maturare le decisioni, e che sia in grado di sollecitare gli altri a pensare con la propria testa. Non è poco, ma ci si può provare.
Che il grande vecchio del Censis sia pronto a “sporcarsi le mani”?