Negli ultimi venticinque anni (a partire dalle Council Directives 89/299 e 89/647), la regolazione bancaria in Europa è stata plasmata dalla trasposizione negli ordinamenti nazionali degli Accordi sul capitale elaborati dal Basel Committee on Banking Supervision (BCBS) nell’ambito BIS (Bank for International Settlements) a Basilea. Gli standard erano stati concepiti per creare condizioni di parità di trattamento (level playing field) per le grandi banche internazionali. In Europa, il processo di implementazione ha, viceversa, sempre fatto riferimento a tutte le banche, senza distinzioni per volume dell’attivo e tipologia di operatività.
La Commissione Europea nel 2013 ha reiterato e giustificato questo approccio unitario (taglia unica) nello spiegare la trasposizione di Basilea III in legislazione dell’Unione (CRR/CRD IV), “per evitare distorsioni competitive e arbitraggio regolamentare”[1]. Si può, tuttavia, argomentare l’opposto: le sempre più complesse regole di Basilea, i vantaggi in termini di assorbimento di capitale dei modelli interni avanzati e le garanzie pubbliche implicite ed esplicite per le grandissime banche sistemiche (troppo grandi per fallire) hanno favorito le grandi banche, sollecitato arbitraggio delle regole sul capitale, inciso negativamente sulla competitività delle banche regionali/locali con modello di business “tradizionale”.
Lo schema unitario di regolamentazione delle banche impronta, pertanto, l’intero impianto dell’Unione Bancaria (definita in senso lato) in Europa. I costi (operativi e di personale) di compliance a un sistema regolamentare molto complesso, ma aggirabile soprattutto con operazioni tramite prodotti derivati (altrettanto e ancora più complesse), ricadono in modo non proporzionale sulle banche retail di piccole/medie dimensioni. Al di là dell’aspetto comunque rilevante di assicurare un vero level playing field per le imprese bancarie in Europa, il problema assume grande importanza se e in quanto le banche regionali e locali svolgono un ruolo particolarmente incisivo e significativo come banche di prossimità, in particolare per le micro e le piccole-medie imprese, componenti essenziale dell’economia reale e dell’occupazione.
Il business model delle banche regionali ben gestite ha un vantaggio comparato nel finanziamento delle piccole imprese locali, anche se inserite in filiere produttive di più ampio respiro. In particolare, il settore delle micro imprese è in Italia, ma anche in Europa, quello più rilevante in termini di creazione (e di distruzione) di posti di lavoro, con caratteristiche di forte prociclicità, come ampiamente documentato negli ultimi rapporti annuali della Federazione bancaria europea. I nessi tra le banche regionali e le Pmi sono molto stretti, con significativi effetti di retroazione che amplificano gli andamenti della congiuntura. In particolare, sono le micro imprese quelle che sperimentano le maggiori difficoltà nel finanziamento esterno, per le caratteristiche intrinsecamente meno trasparenti dei bilanci e per l’inevitabile intreccio con la situazione economico-finanziaria del proprietario/imprenditore.
Anche le piccole imprese devono muovere verso modelli non opachi, con maggior attenzione ai profili di redditività e di patrimonializzazione aziendale. È quanto sta avvenendo, anche sulla scorta dei modelli di valutazione del merito di credito sollecitati da Basilea. Occorre comunque evitare di “gettare il bimbo con l’acqua sporca”. Il modello unitario di regolamentazione delle banche adottato in Europa ha inciso negativamente sul flusso di credito alle piccole imprese e sulle economie locali. Le stesse statistiche pubblicate dalla Banca Centrale Europea sull’accesso al finanziamento esterno per le Pmi hanno evidenziato chiari sintomi di razionamento del credito negli ultimi anni (ECB, 2014).
Non si tratta di argomenti di retroguardia, che devono cedere il passo a schemi di finanziamento più efficienti ed evoluti. Occorre, viceversa, riconoscere che i modelli avanzati di regolazione prudenziale dovrebbero essere meno complessi e comunque non penalizzanti per le banche retail di dimensione locale e regionale. La regolamentazione delle banche dovrebbe, cioè, essere proporzionale e meglio articolata sulla base delle dimensioni e dell’insieme di attività svolte dalle banche, tenendo comunque conto della loro impronta di rischio sistemico. Come si illustrerà nel seguito, queste considerazioni non rappresentano un mero esercizio intellettuale e accademico. Un modello operativo diverso dal “one-size-fits-all” emerge dagli approcci prudenziali elaborati, in particolare dopo la grande crisi finanziaria, negli Stati Uniti e in Giappone e anche in grandi paesi emergenti, come ad esempio in Cina. In questo lavoro si fa, peraltro, specifico riferimento al confronto fra Europa e Stati Uniti, con riguardo alle banche regionali.
La regolamentazione bancaria sul capitale delle banche in Europa improntata ai modelli di Basilea si inserisce oggi, molto opportunamente – ma, come detto, con grave ritardo rispetto alle indicazioni del Rapporto de Larosière (2009) – nel processo di Unione Bancaria. Può essere questa l’occasione per una graduale riconfigurazione del sistema più articolata e meno complessa. D’altra parte, lo stesso Regolamento del Consiglio che affida la microsorveglianza alla BCE (1024/2013) sottolinea che la Banca nello svolgere le proprie funzioni è chiamata al principio di proporzionalità e «deve mostrare pieno rispetto per le diversità delle istituzioni creditizie, per le loro dimensioni e per i modelli di business». Il sistema finanziario europeo è comunque troppo bancocentrico e non può non evolvere verso assetti in cui l’intermediazione di mercato svolga un ruolo molto più significativo.
Anche per le piccole imprese il ruolo del finanziamento bancario non può non essere ridotto. Ma, il processo deve essere graduale, richiede l’attivazione di idonei modelli di cartolarizzazione dei crediti, non può implicare oneri rilevanti per le banche regionali e per le economie locali. Al di là dell’ Atlantico, il Tesoro e la Fed sono intervenuti già a partire dal 2008 anche con azioni mirate per le piccole banche, prima per favorire la securitizzazione di crediti problematici, attraverso il TARP, poi per la cartolarizzazione di crediti in bonis attraverso le Government Sponsored Agencies e la Small Business Administration.
A tale scopo, la creazione di veicoli ad hoc per la cartolarizzazione di crediti in bonis concessi da banche regionali alle micro e piccole medie imprese locali potrebbe consentire in maniera dinamica di:
– ridurre significativamente gli oneri in termini di capitale regolamentare[2] per le banche regionali, data la diversificazione dei rischi di portafoglio derivanti dalla sottoscrizione di titoli rispetto all’iscrizione in bilancio dei singoli prestiti;
– riaprire un canale alternativo di rifinanziamento delle banche regionali con un conseguente rilevante contenimento dei costi di provvista, che potrebbero essere in buona parte girati alle micro e piccole medie imprese locali sotto forma di riduzione dei tassi e/o allungamento delle scadenze (duration) dei finanziamenti;
– accelerare il processo di intermediazione creditizia sui mercati dei capitali in quanto la cartolarizzazione dei crediti rappresenterebbe uno step intermedio rispetto all’accesso diretto al mercato da parte delle PMI. Infatti, in tal modo le PMI avrebbero nel frattempo modo di prendere confidenza indirettamente con i requisiti di compliance e disclosure informativa richiesti per il successivo eventuale accesso diretto ai mercati dei capitali.
Un modello operativo improntato a queste considerazioni può essere tracciato tenendo conto della diversa esperienza e dei modelli di regolamentazione adottati in Europa e negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti, l’approccio “tiered” alla regolamentazione delle banche è stato introdotto dallo stesso Dodd-Frank Act, insieme alla sorveglianza macroprudenziale e al mandato alla Fed di perseguire anche l’obiettivo di stabilità finanziaria, in aggiunta al cosiddetto Twin Peak; è stato successivamente declinato operativamente dalla Fed e dalle altre Autorità di Supervisione.
Come detto, in Europa la Commissione ha viceversa adottato l’approccio di regolamentazione unitario con costi operativi di fatto crescenti per le piccole e medie banche. Le tavole che riporto sulla morfologia dei due sistemi bancari sono al riguardo significative. Contrariamente alle tesi anche ufficialmente proposte dalla ECB (2013), in base alle quali il numero totale delle banche europee risulta essere più elevato rispetto a quello degli Stati Uniti e che tale numerosità di banche si stia riducendo più rapidamente al di là dell’Atlantico, appare sostanzialmente vero l’opposto. Il trend di lungo periodo relativo alla concentrazione e alla riduzione del numero degli istituti di credito è ben evidente sia in Europa, sia negli Stati Uniti. D’altro canto, i dati qui raccolti indicano che le piccole banche stanno rapidamente scomparendo proprio in Europa (3.265 “less significant bank” rispetto alle 5.538 banche con Simplified Prudential Standards; si rammenta che le piccole – o “less significant” – banche europee hanno un totale attivo inferiore a €30 miliardi, mentre le piccole banche US hanno un totale attivo inferiore a $50 miliardi). Sono dati sui quali occorre riflettere, anche e soprattutto per le implicazioni che hanno per il sistema delle Pmi. Ove non si proceda celermente a modificare l’approccio delle regole basato sul paradigma “one-size-fits-all”, i costi di compliance, il numero sempre crescente e la complessità sempre più elevata delle norme sulle banche sono destinati ad accelerare le tendenze qui delineate.
La complessità, il numero crescente e le continue revisioni delle regole che si applicano alle banche, principalmente, ma non esclusivamente connesse all’evoluzione degli standard di capitale di Basilea (per i quali si annuncia il Mark IV) rendono la compliance sempre più onerosa in termini di addetti e di costi per le banche medio piccole; creano uno svantaggio competitivo artificiale, che non trova giustificazioni nel perseguimento della stabilità finanziaria e che contrasta con il principio del levelling the playing field.
Le regole microprudenziali possono, pertanto, entrare in conflitto con gli obiettivi macroprudenziali. L’approccio unitario a regole e supervisione delle imprese bancarie non è corretto, diventa controproducente, crea svantaggi per le piccole-medie banche e, di conseguenza, per il credito alle famiglie e alle pmi a livello locale.
L’approccio regolamentare e prudenziale unitario, che non è intrinsecamente collegato agli Accordi di Basilea rivolti alle grandi banche internazionali, è stato esplicitamente e formalmente rimosso negli Stati Uniti dal Dodd-Frank Act (2010). La Fed e le altre Agenzie Federali proseguono su quella base nella articolazione e implementazione di un approccio “tiered” (articolato per livelli).
In Europa, questo non è avvenuto, con conseguenze negative per la crescita e lo sviluppo, anche perché ruolo e significato delle Pmi nel tessuto produttivo della UE, e segnatamente in Italia, sono particolarmente rilevanti. Come sopra indicato, le nuove regole sulla risoluzione bancaria e sull’approccio del bail-in propongono di fatto nuovi disincentivi per le banche di piccole dimensioni. Occorre riconsiderare l’attuale assetto.