Che l’Italia abbia urgente bisogno di riforme è cosa nota a tutti; tra queste la più urgente è senza dubbio quella della pubblica amministrazione. Finalmente, venerdì scorso dopo oltre un anno e tre passaggi parlamentari, il disegno di legge delega ha ottenuto il via libera.
Non sono passate neanche ventiquattro ore dall’approvazione, però, che già è emerso un primo limite della riforma. Si tratta dell’articolo – introdotto nella scorsa estate con la Legge 114 – che proibisce a chi è andato in pensione di assumere “incarichi dirigenziali o direttivi in organi di governo delle amministrazioni nelle società controllate dallo stato”. Con una modifica, inserita proprio in questi giorni, la norma è stata “ammorbidita” consentendo il conferimento degli incarichi pubblici anche ai lavoratori in pensione, ma solo per un anno e solo a titolo gratuito. L’obiettivo è chiaro: incentivare il ricambio generazionale.
Se prendiamo il caso del nuovo consiglio di amministrazione della Rai ciò significherebbe che quattro consiglieri su nove – in quanto già pensionati – dovrebbero svolgere il proprio compito senza compenso ed essere sostituiti due anni in anticipo rispetto alla scadenza prevista dallo statuto della società. Un bel pasticcio, che va ad aggiungersi alle già tante polemiche (a cominciare da quella sulla presunta solita lottizzazione partitica della televisione di stato) in atto.
Gli ufficio del Tesoro sono già al lavoro per correre i ripari. E, come spesso avviene in questi casi, le vie di uscita non mancano: la norma non dovrebbe essere applicata alla Rai perché non sarebbe un’azienda pubblica nel senso stretto del termine (l’Istat non la include nelle aziende che compongono il conto consolidato della pubblica amministrazione) e poi perché le nomine sono state decise dal parlamento che non fa parte del perimetro della pubblica amministrazione. Insomma, c’è da scommettere che una soluzione verrà trovata e che i quattro neo consiglieri – rei di essere pensionati – non verranno “colpiti” dal divieto previsto dalla Legge Madia.
Tuttavia, c’è anche da augurarsi, che risolto il “pasticcio” Rai, questa norma venga eliminata del tutto. Perché non rispetta due criteri fondamentali per il buon funzionamento di un consiglio di amministrazioni: quello della diversità e quello del giusto compenso.
Numerosi studi internazionali dimostrano che la “diversity”, ossia l’eterogeneità dei consiglieri di amministrazione (genere, competenza, età), contribuisce a produrre valore all’interno delle aziende. Per quanto riguarda la diversità di genere, l’Italia è senza dubbio uno dei paesi che ha fatto maggiori progressi, grazie alla legge Golfo-Mosca, che prevede per le società quotate in borsa e quelle a controllo pubblico che almeno un terzo dei membri del consiglio (un quinto al primo mandato) appartenga “al genere meno rappresentativo”, che, inutile precisare, almeno in questo momento è quello femminile.
Il nuovo consiglio Rai, con due donne su nove membri rispetta la legge. Certo, da un governo che ha fatto del rafforzamento della presenza femminile nelle società partecipate un cavallo di battaglia, ci si poteva aspettare qualcosa di più, come quello di anticipare già la quota di un terzo prevista per il secondo rinnovo: ossia tre donne (come nel precedente consiglio) invece di due.
Anche la diversità anagrafica è dimostrato essere fonte di arricchimento per i consigli di amministrazione. Far interagire consiglieri giovani e consiglieri anziani è il modo migliore per mescolare dinamismo con esperienza, carica innovativa con pragmatismo. Esattamente quello che la Legge Madia – nei fatti -, vieta, con il dichiarato obiettivo di favorire la presenza di un’unica classe anagrafica di consiglieri: i giovani. In questo modo, il settore pubblico si priva di un patrimonio di conoscenza, esperienza e saggezza e, in certi casi, anche di freschezza intellettuale (ben maggiore di quella di alcuni giovani) che sarebbe prezioso se messo a servizio della collettività. Servizio che, però, deve essere remunerato. E qui veniamo al secondo punto critico della norma in questione: la gratuità del ruolo da consigliere.
Va da sé che un corretto svolgimento del consiglio di amministrazione richiede un compenso adeguato e, soprattutto, uguale per tutti i consiglieri. L’articolo 6.1 del Codice di autodisciplina prescrive, infatti, che la remunerazione degli amministratori debba essere “stabilita in misura sufficiente ad attrarre, trattenere e motivare persone dotate delle qualità professionali richieste per gestire con successo l’emittente”. Come si può pensare di ottemperare a questo scopo, se si obbliga i consiglieri pensionati a lavorare a titolo gratuito?
Pertanto, dividere i consigli di amministrazione tra chi fa del volontariato a termine (i pensionati) e chi invece viene retribuito (i giovani) rischia di non essere la strada più idonea per – effettivamente – incrementare l’efficienza delle società pubbliche, obiettivo cardine delle riforma della pubblica amministrazione.