Le telefonate con cui il presidente della Fiat John Elkann ha informato prima il Capo dello Stato e poi il premier e infine gli altri soci del patto di sindacato Rcs del raddoppio della quota della Fiat nella stessa Rcs con un investimento in Borsa di 90 milioni di euro valgono più di ogni commento e fotografano l’importanza di un’operazione inattesa che va molto al di là del rafforzamento azionario del gruppo editoriale che pubblica il Corriere della Sera. La mossa di Elkann fa della Fiat il primo azionista di Rcs, dà stabilità al gruppo editoriale, cambia gli equilibri nell’editoria italiana mettendola in condizione di aprirsi a soci internazionali (il primo sarà Murdoch?) senza venirne colonizzata ma lancia due messaggi che vanno oltre Rcs e l’editoria e che hanno una valenza generale.
Il primo segnale, all’indomani della visita – anch’essa inaspettata – del ceo della Fiat, Sergio Marchionne, allo stabilimento di Pomigliano per ringraziare gli operai della loro disponibilità a lavorare il sabato quando la produzione tira, dice che la Fiat potrà anche avere la testa nel mondo e negli Usa ma continua ad avere il cuore in Italia e quando maturano occasioni di fare affari, come in Rcs, non si tira indietro.
Il secondo segnale racconta di un capitalismo italiano che, per quanto asfittico e opaco, comincia a dare qualche segno di vitalità, a partire dalla prima legge che dovrebbe ispirare il capitalismo moderno e cioè che gli affari si fanno investendo e aprendo il portafoglio e non architettando o rafforzando le scatole cinesi per controllare le società senza capitali.
Ma quel che conta è che l’iniziativa della Fiat e del suo giovane presidente non è isolata ma viene solo pochi giorni dopo la rivoluzione di Mediobanca che nel nuovo business plan pensato dal suo ad, Alberto Nagel, manda in soffitta la logica del salotto buono, che fece la fortuna di Enrico Cuccia e della merchant bank milanese ingessando però il capitalismo italiano, annunciando una novità dirompente come la vendita progressiva di tutte le partecipazioni (eccezione fatta per Generali), l’uscita dai patti di sindacato e la concentrazione delle risorse e delle energie nell’attività caratteristica di una vera e propria banca.
Se si aggiunge la decisione, meno reclamizzata ma non meno rilevante, del ceo di Intesa Sanpolo, Enrico Cucchiani, di pensionare l’ambigua concezione di banca di sistema – che poteva avere un senso quando le banche erano pubbliche ma sarebbe semplicemente antistorica ai giorni nostri – e il rinnovo della governance e l’internazionalizzazione del management delle Generali avviate dal nuovo ceo del Leone, Mario Greco, è difficile negare che la crisi stia finalmente spingendo i maggiori gruppi italiani a rinnovarsi e a cambiare il modo di essere del capitalismo nazionale.
Anche il progetto di Franco Bernabè di disincagliare Telecom Italia dalle secche di un paralisi indotta da un debito tanto pregresso quanto incombente con l’avvio dello spin off della rete e la sua futura apertura a nuovi soci per rafforzare una infrastruttura chiave per il Paese va annoverata nella colonna delle novità positive che segnano questa fase del capitalismo italiano.
L’unica nota stonata è la mancanza all’appello del cambiamento dell’azionista pubblico. Le contradditorie regole volute dal Parlamento sulle nuove nomine pubbliche e la scomparsa dall’orizzonte di Governo di ogni benché minimo progetto di privatizzazione e di liberalizzazione lasciano increduli. Fortunatamente in cabina di regia ci sono uomini del valore di Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni e questo lascia aperta la porta alla speranza del rinnovamento, ma è ora che trovino il coraggio di giocare in contropiede e di adottare decisioni innovative sulle imprese pubbliche che possono anche suonare sgradite a Pd e Pdl ma delle quali i maggiori partiti della maggioranza dovranno prima o poi farsi una ragione. Insomma, cari Letta e Saccomanni, se ci siete è ora di battere un colpo.