Il ritratto di una famiglia disfunzionale, che in fondo è anche una “normale”, come quella di tanti.
Quell’amore di genitori imperfetti che si lasciano marchiare a fuoco il cuore.
Un giorno non ce la faccio più. Vado sotto casa dei miei genitori, mi faccio aprire, salgo furiosamente il piano di scale, entro in casa scostando le feste del cane con un piede e urlo in faccia ai miei genitori tutto quello che devono sapere sul perché non voglio più vederli. Fino a quel momento mia madre non riusciva a capire. Abitavo a cinque o sei isolati. Come facevo a non trovare tempo, anche solo una mezzora dopo il lavoro?
Adesso che sono passati molti anni, fatico a ricordare i particolari, ma ricordo loro. I loro corpi e le loro posture di ex sessantottini invecchiati male. Mio padre appoggiato con la spalla alla parete di fianco al frigo. La testa incassata da sembrare quasi priva di collo e una sigaretta dopo l’altra nel posacenere, con gli occhi sempre più colati nel pavimento. Mia madre in grembiule, le mani ancora sporche del sapone dei piatti, in piedi in mezzo alla cucina con le spalle mogie e i capelli increspati dal cattivo tempo di quei giorni e grigi di età, come tanti fili elettrici senza tensione.
E io sulla porta continuavo a sbraitare.
Gliene dicevo veramente brutte sui loro fallimenti, incolpandoli di tutto. Più sbraitavo, più mi sembrava che la foresta delle loro colpe s’infittisse. Sui loro volti, quando li accusavo di qualcosa che sicuramente non avevano mai pensato, vedevo accendersi un’espressione sorpresa, una specie di istinto all’indulgenza per sé. Ma questo nella mestizia generale. In assoluto incassavano i miei rimproveri con abnegazione. Sembravano accettare quel martirio come una regola del gioco, un momento normale e già previsto del loro essere genitori e del mio essere figlio. Ero pronto. La certezza che non avrebbero osato opporsi era una delle ragioni che per anni mi aveva tolto il coraggio, insieme ai consigli di una psicologa impreparata. Ma in quel momento non pensavo alle conseguenze, ai sensi di colpa futuri. Avevo bisogno di picchiare e picchiavo.
Così davo a mio padre del rincoglionito, del fallito, del pervertito e del ladro. Gli dicevo che pensava non me ne fossi mai accorto delle seghe che si sparava sul divano di notte davanti ai porno delle due del mattino. E se si sentiva fiero di non aver mai pagato una sola delle decine e decine di multe accumulate negli anni. A che cosa pensava mentre fumava la sessantesima sigaretta della giornata? Di certo non al cancro che magari già gli stava divorando un polmone o all’infarto che poteva colpirlo in qualunque momento. Perché lui non era capace di pensare al futuro. E se fosse morto chi l’avrebbe mandata avanti la baracca? Io? Col mio contratto a progetto? Perché non aveva una pensione privata? Come pensava che io e i miei fratelli avremmo potuto provvedere alla loro vecchiaia? E perché cazzo gli scatoloni del trasloco di due anni prima stavano ancora ammassati all’ingresso?
Nel frattempo mia madre si beccava dell’alcolizzata, della stronza e della teledipendente cerebrolesa. Le ricordavo di quando all’età di cinque anni potevo fregarle dal portafoglio i biglietti da cinquemila lire e uscire di casa a spenderli in caramelle mentre lei sbavava russando seminuda sul letto alle cinque del pomeriggio. Le spiegavo che con ogni probabilità era lei la responsabile della mia asma. Perché asma significa oppressione, soffocamento. E lei mi aveva tolto l’aria con i suoi giudizi, con la sua apprensione, con i suoi ricatti morali. Come quando mi faceva scenate da fidanzata delusa perché a cinque anni non volevo stringerle la mano scendendo le scale. O quando m’invitava a trovarmi un posto a casa di quel mio compagno che riceveva regali così belli da sua madre, visto che non ero soddisfatto dei miei, visto che lei non era una buona madre, andassi pure da quell’altra. Le dicevo che non me n’era mai fregato un cazzo di sapere che molti uomini le andavano dietro o che papà non aveva più voglia di fare sesso con lei, anzi, di scoparla, per usare le sue parole. E poi di quale disgusto generava in me il ricordo quella volta che si era rasata il sesso davanti a noi tre bambini. E dei baci che mi chiedeva numerosi quando era ubriaca. E di quell’altra volta, che io avevo già tredici anni, in cui aveva avuto l’idea di farci la doccia nudi tutti quanti insieme, padre madre e figli nella grande doccia della palestra deserta dell’hotel in Trentino Alto Adige.
Ero senza controllo. Sentivo le parole uscire con chiarezza e violenza cristalline. Ero sicuro e arrabbiato come non lo ero mai stato e mi colpiva la mia capacità di far durare la rabbia nel tempo. Di non sgonfiarmi nel vederli deboli e sconfitti. Ogni tanto mia madre provava a rispondere. Puntava le mani gocciolanti nell’aria come per fermare un pensiero o un punto del mio discorso che non poteva lasciar correre senza dire niente. Ringraziai per la prima volta quei guizzi negli occhi di mia madre, quei piccoli tentativi di combattere che mi ricordavano subito quel che era stata, gli schiaffi immotivati sulle mie guance, i suoi sbalzi di umore, le quotidiane vessazioni psicologiche, gli insulti, le umiliazioni, la paura costante di perderla e lavorare ogni minuto, ogni secondo, per conservare i brevi momenti di serenità, perché non si arrabbiasse o non le venisse voglia di scomparire dentro una bottiglia interrompendo il flusso della presenza o della tenerezza. Ringraziai quella sua voglia di ribellarsi alla cascata bollente delle colpe che le rovesciavo in testa. Le sue timide reazioni erano vento sulla mia brace.
A un certo punto mio padre si mise a sedere. Più precisamente si lasciò cadere sulla sedia accanto a lui e si prese la testa tra le mani, come se il frastuono delle parole non fosse fuori, ma dentro di lui.
“Insomma, non abbiamo fatto proprio niente di buono.”
E io chiesi a mamma di chiudere la finestra, che era inverno e da bambino me n’aveva fatte prendere poche di bronchiti per le sue caldane. Lei lo fece rapidamente, proiettando le mani in avanti con una fretta che era come dire scusami amore mio subito.
‘Ecco va bene così?’ mi dissero i suoi occhi mentre tornava alla sua postazione di cero consumato e spento in mezzo alla cucina.
“Ma questa psicologa quanto costa? Forse possiamo aiutarti…” disse voltandosi verso mio padre.
Poi un tuono del cielo squarciò il silenzio della cucina, in cui sentivamo soltanto le dita di mio padre strofinare contro le tempie, davanti alle immagini mute della televisione accesa.
Matteo De Simone è nato a Torino nel 1981. È il cantante e bassista della rock band Nadàr Solo, con cui ha pubblicato gli album Un piano per fuggire (2010) e Diversamente, come? (2013). Come scrittore ha esordito nel 2007 con il romanzo Tasca di pietra (Zandegù) a cui ha fatto seguito nel 2011 Denti guasti (Hacca Edizioni).
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