«… Vecchia Roma sotto la luna nun canti più…»
La voce è potente, troppo per rendere a pieno la dolcezza di quelle strofe che, lui non può dimenticarlo, sono le stesse che aveva dedicato a Marella la notte che l’aveva portata a far l’amore nei campi dietro piazza della Rovere.
A cantare è un giovanottone in jeans sdruciti, maglietta di Greenpeace e una barba ispida che va a mescolarsi ai dread simili a cannolicchi di stoppa. Le sue dita si muovono agili sulle corde della chitarra, ma gli accordi sono duri, più adatti alla musica di questi anni. Anni in cui tutto va all’incontrario, donne che sembrano uomini, uomini che sembrano donne e notti scambiate col giorno per decreto comunale. A Remo ‘st’idea della Notte Bianca proprio non gli va giù. Lui ha settantasette anni, di cui cinquanta passati a lungotevere della Farnesina, piano terra. Ha visto aumentare di anno in anno il fiume mefitico del traffico romano. Ha dovuto mettere i doppi vetri per proteggersi dallo smog e dal rumore ininterrotto degli pneumatici lanciati sull’asfalto. E per questo ha dovuto rinunciare alle sirene delle autoambulanze del Fatebenefratelli. Un suono che è l’unico a trovare confortante e il motivo è sempre lo stesso: Marella che faceva l’infermiera nell’ospedale dell’Isola Tiberina, Marella che se n’è andata ormai da tanto tempo, Marella che amava quella canzone.
Il ragazzo, intanto, ha finito. I numerosi avventori del ristorantino improvvisato sull’argine del Tevere sembrano sollevati ma non disposti a versare, per tale sollievo, l’obolo che chiede girando per i tavoli. Quando arriva al suo, di tavolo, Remo alza gli occhi a guardarlo.
«O cambi musica o cambi mestiere» dice.
«Come?»
«Hai capito, hai capito. Quella non è roba che puoi cantare come la canterebbe Ligabue. Le canzoni romane vogliono la filatura…»
«Si, vabbè…»
Si gira per andarsene, ma Remo lo blocca. La mano macchiata dal tempo artiglia un tatuaggio a colori.
«Mettete a sede e passame la chitarra.»
Il ragazzo lo fissa, indeciso, poi alza le spalle. Tanto la serata è moscia. A Roma si stanno esibendo orchestre e gruppi, Lucio Dalla e i Negramaro e quelli seduti ai tavoli stanno lì per gli spaghetti cacio e pepe. Siede, accetta il bicchiere di vino e molla la chitarra al vecchio.
Remo accarezza lo strumento, aggiusta qualche tono, si sciacqua la bocca col cannellino poi imposta le dita sull’accordo…
«Oggi er modernismo der novecentismo
rinnovanno tutto va
e le usanze antiche e semplici
so’ ricordi che sparischeno
e tu Roma mia senza nostalgia
segui la modernità
fai la progressista
l’universalista
dici okay i love thank you ja ja
vecchia Roma sotto la luna
nun canti più
li stornelli
le serenate de gioventù…»
Il ragazzo non crede ai suoi occhi. All’improvviso il mormorio dei tavoli è cessato, lasciando che solo il fruscio del fiume accompagni la voce poca ma ‘ntonata di Remo Tarquini, oggi pensionato ma un tempo commesso da Ricordi. Quando finisce, l’applauso scatta spontaneo subito seguito dalle richieste: Barcarolo Romano, Pupo Biondo, Casetta de’ Trastevere.
Remo si schermisce, si alza, si inchina al pubblico improvvisato, restituisce la chitarra e, scolato l’ultimo sorso di vino, si immerge nel flusso della folla che si avvia alle scale per il Lungotevere.
«Aspetta!» Stavolta è la mano grande del ragazzo ad artigliare lo scarno avambraccio. «Questi so’ tuoi.» E gli fa scivolare in tasca otto monete da un euro. «La chitarra è la mia, ma la voce era la tua» spiega.
Remo scuote la testa e porge i soldi.
«Fanno più comodo a te che a me.»
Il ragazzo non protesta.
«Pure tu hai fatto ‘sto mestiere?»
Le scale sono arrivate e le salgono insieme.
«No. Ma de’ canzoni ne ho sentite tante e l’ho pure cantate.»
L’affanno si fa sentire e il ragazzo gli porge il braccio per tenersi sui gradini scivolosi. Remo accetta volentieri.
«Brutta bestia la vecchiaia.»
«Mica sei così vecchio.»
Remo lo guarda.
«Come hai detto che te chiami?»
«Stefano.»
«Stefano, ma che me stai a porta’ in giro? Potrei esse’ tu’ nonno.»
«Aveccelo un nonno che canta così, potevamo fa un duo.»
Si fermano. Dalla balaustra del lungotevere gli argini e i ponti illuminati sono uno spettacolo. Stefano tira fuori di tasca le cartine e comincia a rollare una canna. Remo lo guarda senza scandalizzarsi.
«Quelle te arrochiscono la voce» dice.
«Macché, io una voce come la tua me la sogno comunque… Com’è quella storia della filatura?»
«Roba vecchia, dei tempi di Carlo Buti, Tito Schipa, Claudio Villa ma da giovane…»
Stefano accende.
«Mai sentiti nominare» confessa esalando il fumo dolciastro.
«Non mi stupisce… Vabbè, io me ne torno a casa. Se me dice bene, mi faccio due ore di sonno prima che fa giorno. Grazie.»
«Grazie de che?»
«Della canzone.»
Stefano allontana il fumo sventolando una mano.
«Ma se l’hai cantata te.»
«Appunto, erano quarantasette anni che me la portavo dentro.»
Gli occhi di Remo si fanno distanti. S’appoggia di schiena al parapetto e guarda la strada intasata di auto che aspettano il verde dal semaforo di Ponte Cestio.
Quel semaforo che non c’era quarantasette anni prima.
«Ce l’hai la ragazza?» chiede.
«Una mezza specie.»
«Ce l’avete una canzone?» Non aspetta la risposta. «Vecchia Roma era la nostra. Quella del primo appuntamento. Claudio Villa cantava dal juke-box e io e Marella ce facevamo gli occhi dolci. All’epoca mica ce se baciava davanti a tutti, come fate voi. I pizzardoni te facevano la multa se te beccavano.»
Stefano sorride e ascolta. La cannabis ovatta il presente caotico della Notte Bianca e avvicina il passato. Si lascia scivolare a terra e lo invita a fargli compagnia.
«E poi chi me tira su?» chiede Remo.
«Ci penso io…»
È riluttante. Seduto per terra insieme a quel ragazzo dai capelli cespugliosi, avvolto dal fumo della canna, col rischio di essere caricato dalla Caritas e ritrovarsi a Sant’Egidio. Poi si arrende e, in uno scricchiolio di giunture, si siede incurante dei pantaloni chiari.
«Marella faceva l’infermiera qui, al Fatebenefratelli» dice indicando con il pollice alle sue spalle. «Io c’ero capitato per un incidente con la bicicletta, un bel volo sulle rotaie della circolare rossa, quella pe’ l’università.»
«Il 30» precisa Stefano, ma Remo non ascolta.
«Un colpo di fulmine come se ne vedono pochi. Dopo manco due mesi so’ salito dal padre a chiedere la mano. Santa Maria degli Angeli era piena il giorno che m’ha detto di sì, e c’era un sole…»
«Avete avuto figli?»
Di solito a Stefano non piace stare a sentire i vecchi, ma Remo ha un modo tutto suo di raccontare le cose. Non cerca la sua attenzione, parla per se stesso, lo scarica di ogni responsabilità. Tira un’altra boccata di fumo.
«Magari… non c’è stato il tempo.»
Piatti e bicchieri, tutto in ordine. La pentola è sul fuoco e l’acqua bolle. Guarda l’orologio a muro: le nove meno un quarto. È ora di calare la pasta. I bucatini si aprono a corolla e lui li rimesta col forchettone stando attento che affoghino tutti. Stappa il vino rosso e lo versa nella caraffa, poi si avvicina alla finestra. L’Isola Tiberina è una visione tra le fronde dei platani, le finestre dell’ospedale sono ancora tutte illuminate. Quando si spengono è il segnale: Marella ha finito il turno. Torna in cucina e apre lo sportello del frigorifero nuovo di zecca: sul ripiano più alto la charlotte è bianca come una nuvola sotto la scritta “buon anniversario”. Tutto in ordine. Anche il 45 giri è pronto sul piatto del giradischi. Ripassa il piano: scolare la pasta al dente, condirla con il sugo alla matriciana, quello che Marella preferisce, mettere la pasta nei piatti nel momento in cui lei appare su ponte Cestio, abbassare la puntina sul disco e, mentre Vecchia Roma si mescola al profumo dei bucatini, mettersi dietro la porta con il mazzo di rose rosa che ha fatto confezionare per lei. Rosa, perché se Marella ancora non gliel’ha detto, lui l’ha capito che è incinta e sa pure che sarà una femmina. Se lo sente.
La pasta è nei piatti, il pecorino pronto da grattare. Il braccio del giradischi scende sul 45 giri e Claudio Villa comincia a cantare.
«Oggi er modernismo der novecentismo
rinnovanno tutto va
e le usanze antiche e semplici
so’ ricordi che sparischeno…»
Lui spia dalla finestra e vede che Marella è ormai quasi alla fine di Ponte Cestio.
«… er progresso t’ha fatto grande
ma sta’ città
nun è quella ‘n do’ se viveva
tant’anni fa…»
Afferra il mazzo di fiori e corre a mettersi dietro la porta.
«… più non vanno l’innammorati
per lungo Tevere
a rubbasse li baci a mille
la sotto l’arberi…»
Una frenata.
Un urlo.
Uno schianto.
«… e li sogni sfojati all’ombra
de un cielo blu
so’ ricordi de un tempo bello
che nun c’e’ più…»
È il freddo che sale insieme al sole a svegliare Stefano. Apre gli occhi e col buio volano via frammenti di immagini: spaghetti… No, forse bucatini e una strada, una voce che canta Vecchia Roma e il rumore inconfondibile di una frenata inutile. Non fa in tempo a chiedersi se era un sogno, la testa bianca del vecchio gli ha indolenzito la spalla. Adesso ricorda. La Notte Bianca, il ristorante e quello strano uomo che gli ha soffiato la chitarra e la platea. Se lui ha dolore in ogni punto del corpo, chissà come deve stare… Remo, sì, è così che si chiama.
«Remo… Oh, Remo, sveglia che ti offro la colazione.»
Le autrici
Laura Costantini e Loredana Falcone hanno «varcato la boa degli anta e tanto vi basti». Romane con l’orgoglio di esserlo anche se quando scrivono (insieme, da sempre) vanno esattamente dove le porta la penna. A quattro mani hanno pubblicato: Carne innocente (Historica Edizioni, 2012), Il destino attende a Canyon Apache (Las Vegas Edizioni 2012), Il puzzle di Dio (goWare, 2014), Ricardo y Carolina (goWare, 2015), Una voce nella nebbia (Edizioni Il Vento Antico, 2016), Fiume pagano e Tre piccole sinfonie di desiderio (Historica Edizioni, 2016).