Clara cammina tra la folla del sabato pomeriggio, ormai quasi sabato sera. Coppie di anziani dal passo sincrono contendono il marciapiede alle famiglie in libera uscita.
“Libera?” pensa Clara.
Basta guardarli per capire che sono bombe pronte a esplodere, ma al rito della passeggiata del sabato non ci rinunciano. Salvo poi tornare a casa col fiele alla bocca e un grumo d’astio piazzato in mezzo al petto che cercheranno di ingoiare insieme alla cena. Ah, le belle famiglie, pilastro della collettività!
Clara ne prende di mira una: madre, padre e bambina, fermi davanti alla gelateria. La situazione pare promettente, con l’infanta che scalcia e urla per un cono negato e la donna che, alternando promesse e minacce, tenta invano di arginarne la furia. Intanto l’uomo fissa la scena, catatonico.
“Sarà uno di quelli che chiudono l’interruttore del cervello a comando” pensa Clara. Poi mentalmente conta: “Uno, due, tre…”.
Dalla mano della donna parte un ceffone che coglie in piena faccia la mocciosa, facendole piangere lacrime vere. Brutalmente risvegliato, l’uomo si mette a sacramentare.
“Bum!” gongola Clara. E, mentre il litigio deflagra violento, si allontana. Data la prevedibilità dell’epilogo, si sente una Cassandra da due soldi. Ma sono pur sempre soddisfazioni. Né la turba sapere d’essere cattiva, perché la perfidia ormai è la sua unica spinta vitale e senza sarebbe perduta.
Più avanti, all’altezza del bar, staziona una comitiva di adolescenti. Categoria tra le più odiose agli occhi di Clara, che al solo sentir parlare di “disagio giovanile” e altre cazzate da sociologi sente il sangue montarle alla testa. Se venissero a chiederle cosa pensa dei giovani, risponderebbe: “Tutti potenziali delinquenti”. Tanto più odiosi quando, come ora, le sbarrano il passo senza manifestare di averla vista. Così, archiviato il capitolo famigliole a passeggio e relativi fastidi, passa volentieri a diversificare il suo livore. Per darsi la carica, osserva con disgusto il campionario di cellulari sguainati, tacchi inverosimili e occhiali da sole pezzottati. Quindi, assunto l’assetto da guerra – buste della spesa da una parte e braccio ad angolo acuto dall’altra –, si fa strada a gomitate. Sotto i suoi colpi inesorabili la mandria è sbigottita, vinta, dispersa. Sennonché la bella del gruppo, che madre natura ha precocemente dotato di un didietro sontuoso, le indirizza a tradimento un sonoro: «Chitemmuorto!». Clara, culo sfiorito e scialbo come tutto il resto della persona, le guarda la mercanzia messa in mostra dentro un jeans attillato con invidia mascherata da riprovazione. La ragazza a sua volta analizza Clara che attraverso il suo sguardo impietoso prende nota dei suoi quarant’anni mal portati, della sua faccia stanca, del trucco sfatto del mattino, delle mani che stringono i sacchi di plastica del supermercato. Prende nota, sentendosi patetica, del suo solitario andare tra la folla del sabato pomeriggio, ormai quasi sabato sera.
Alla disperata ricerca di un diversivo, guarda l’orologio: “Le sette meno dieci, devo fare presto!” pensa e, con una virata rabbiosa, evita una zingara con bambino al seguito che si è avvicinata con la mano tesa. La zingara non si arrende, le si incolla alle costole: «La buona fortuna, signora, la buona fortuna!». Poi, vista la mala parata, rinuncia. Ma prima si leva la soddisfazione di augurare a Clara tribolazioni di varia natura, ricevendone in cambio un anatema di morte prematura per la sua prole. La mostruosità del malaugurio lascia senza fiato la zingara. Sopraffatta da terrore superstizioso, si stringe il bambino al petto e fugge pronunciando scongiuri.
Clara imbocca la Strettola Sant’Anna alle Paludi.
“Devo fare presto, sennò a quella chi la sente! Presto, o come niente si fa venire la bella idea di alzarsi dal letto col risultato che me la ritrovo schiantata a terra, e più sputo l’anima per alzarla più lei per dispetto si fa pesante. E se le dico che un giorno di questi finirà per rompersi la testa fa finta di piangere. Di cosa non sarebbe capace per farmi sentire in colpa.”
S’infila nel portone. Col respiro mozzo, si arrampica per le tre rampe di scale che portano a casa. Giunta sul pianerottolo, si ferma. Solo ora s’è accorta che le buste della spesa le hanno scavato solchi dolorosi nelle dita. Appoggia le sporte a terra e si massaggia le mani, poi si mette a scandagliare nella borsa, alla ricerca delle chiavi. Quando le ha trovate le osserva con attenzione, nemmeno fossero un oggetto alieno rinvenuto a sorpresa in mezzo alla sua roba. Malgrado la fretta di un attimo prima, sta prendendosi del tempo. Ma quello passato a guardare un mazzo di chiavi è solo tempo perso, anzi non è nemmeno tempo, ma una sospensione fittizia tra i doveri che l’hanno portata per strada e quelli che l’aspettano dentro casa. Allora, tanto vale aprire subito la porta.
Clara gira la chiave nella toppa e come mette piede nell’ingresso buio viene aggredita da un richiamo imperioso. Ma peggio sarebbe stato se dalla stanza in fondo al corridoio fossero venute implorazioni d’aiuto.
«Clare’, sei tu?»
«E chi ha ‘ddà essere! Aspetta, poso la roba e vengo.»
«Stavo in pensiero, a mammà! Ma che hai fatto?»
«Al supermercato c’era folla, sono stata mezz’ora in fila alla cassa.»
«E poi che altro hai fatto?»
«Poi, siccome il pullman non passava, sono dovuta tornare a piedi.»
«E ringrazia a Dio che tieni le gambe buone! Clare’, ce sta ammuina ‘mmiezo ‘a via?»
Stavolta Clara non si prende la briga di rispondere e a ringraziare Dio non ci pensa proprio. Porta in cucina le buste della spesa, le appoggia sul tavolo e sistema la roba che va tenuta in frigo. Il resto lo metterà a posto più tardi, adesso deve preparare la cena alla madre, sperando che poi si addormenti.
Quando la pastina è cotta, ci scioglie dentro un liofilizzato di carne. Prepara il vassoio: piatto fumante, acqua oligominerale, omogeneizzato di pera, bavaglino. In tutto e per tutto la pappa di un bebè, se non fosse per l’assortimento di medicine da prendere prima, durante e dopo i pasti. Sulla soglia della camera in fondo al corridoio, tira un respiro profondo. Là dentro il sentore di vecchio che invade la casa è così intenso che prende alla gola. Coraggio: prima si decide a entrare, prima ne uscirà.
Dal fatto che stava zitta, doveva immaginarselo: di sghembo sui cuscini, lei s’è appisolata. Posato il vassoio sul comò, Clara la raddrizza. Lei caccia un urlo: «Gesummaria!Così mi fai venire un pànteco!»
«Il mangiare è pronto. Tie’, pigliati la pillola.»
«Uff! Me so’ scucciata ‘e me piglià ste’ schifezze!»
«E io mi sono scocciata di sentirtelo dire. Guarda che non mi fai un piacere a pigliarti le medicine!»
«Uff! E pigliammoce ‘stu pinnolo… Clare’, che pastina m’hai fatto?»
«Stelline.»
«E il liofilizzato a che cos’è?»
«Al vitello.»
«Vitello l’ho mangiato a mezzogiorno. Che miseria, lo sai che mi piace quello di pollo! Non ci stava, quello di pollo?»
Clara le annoda il bavaglino e le sistema il vassoio sulle ginocchia.
«Mi fanno male le mani. Dammi a mangiare tu, a mammà.»
Clara per vendetta riempie il cucchiaio di pastina rovente e glielo accosta alla bocca. Lei però, devastata nel corpo ma sempre presente a se stessa, non ci cade: «Soffia, Clare’! Non vedi che scotta?».
Pur di farla finita, Clara esegue con lo spirito di un operaio alla catena di montaggio: si fa perché va fatto e va fatto così perché non c’è altro modo. Soffiare sul cucchiaio, portarglielo alla bocca e non pensare. Riaffondare il cucchiaio nel piatto, soffiare, portarglielo alla bocca. E non pensare. Lei ingoia il cibo con voracità, malgrado tutto ha un attaccamento alla vita da fare invidia a una giovane. Il mangiare le cola sul mento, lungo il collo, e lo stomaco di Clara si contrae. Pulirle la bocca col tovagliolo ogni tre cucchiaiate non è una premura, ma solo un altro gesto necessario da aggiungere alla sequenza.
Ora lei ha il respiro affannoso. Segno che la pastina stracotta le ha riempito troppo lo stomaco. Non lo ammetterebbe mai per paura di perdersi l’omogeneizzato di frutta del quale è golosa; ma che è in difficoltà lo si capisce dal fatto che, per concedersi tregua, a ogni boccone alterna una domanda. A cominciare, visto che non si dimentica mai di niente, da quella rimasta in sospeso.
«Clare’, ce sta ammuina ‘mmiezo ‘a via?»
«Una babele. Guarda come te lo dico: è l’ultima volta che vado al supermercato di sabato. Dalla settimana prossima la spesa si fa il venerdì.»
«Clare’, sei passata per la farmacia?”
«Sì.»
«E ti sei ricordata del ratafià?»
Gesù, il ratafià! Come ha potuto scordarsene, proprio di sabato e con zia Michelina che domani viene a fare la solita visita di cortesia! Col negozio di don Mariano piazzato affianco al portone a uso di promemoria, come è potuto uscirle di mente? E mo’ chi glielo dice a quella; come minimo si farà venire un mancamento per poi rovesciarle addosso recriminazioni a non finire. Dato cosa l’aspetta, è escluso che sia stata una semplice distrazione: non ci stanno santi, sono le bestemmie della zingara che cominciano a cogliere nel segno. Che sia maledetta! Che il malocchio che le ha gettato possa rimbalzarle addosso, che su di lei si abbattano sciagure da far sembrare rose e fiori le piaghe d’Egitto, che quella pezzente lurida possa…
«Claretta! Ti sei ricordata del ratafià?»
«Sì, sì…»
«E l’hai versato nella bottiglia di cristallo di Boemia?»
«Non ancora, lo faccio più tardi.»
«Non ti scordare d’incartare la bottiglia vuota, prima di buttarla. Michelina, c’a’ scusa d’aiuta’ è capace ‘e mettere ‘e mmane pure dint’ ‘a munnezza.»
«Tranquilla, non mi scordo.»
Clara cambia il panno a sua madre. Le otto meno venti.
“Ti scongiuro, dormi!” Le toglie un cuscino da dietro la schiena. “Se dormi giuro che domani avrai il liofilizzato di pollo che stasera ti ho negato solo per privarti di un minuscolo piacere.”La rigira su un fianco e le rimbocca le lenzuola, strette strette attorno al corpo.
Le otto meno dieci.
“E dormi, per Dio!” Poi, quando finalmente sente il respiro del bozzolo grottesco che sta sul letto farsi cadenzato e pesante, prende la borsa ed esce.
Le otto e tre minuti. Ora per strada i lampioni sono accesi, mentre è spenta l’insegna con la scritta Coloniali Aversa. Anche se aveva sperato in un miracolo, Clara se l’aspettava. Il proprietario del negozio, un vecchio viscido e cerimonioso, è più preciso del segnale orario e abbassa sempre la saracinesca alle otto in punto. Adesso, ignaro dell’abisso di disperazione nel quale l’ha precipitata, don Mariano Aversa starà andando a casa a prepararsi un brodino. “Strafògati!” lo maledice Clara. Avere chiuso il negozio all’orario stabilito è solo l’ultimo dei danni che quell’individuo le ha procurato.
Fu lui, più di trent’anni prima, a vendere a sua madre la prima bottiglia di ratafià. Quella porcheria che da allora, sprofondasse il mondo, va offerta ai parenti in visita domenicale. Parenti per fortuna ormai tutti morti a eccezione di zia Michelina, che il Padreterno si chiami al più presto pure lei e che finisca perlomeno questa jacovella ridicola del ratafià! Ma a tirare i piedi a zia Michelina Clara ci ha già provato inutilmente tante di quelle volte da perderne il conto, e ora non è in vena d’insistere. È troppo concentrata ad augurare una morte lenta e dolorosa a Mariano Aversa che, d’altronde, se lo merita. Fu lui a suggerire a sua madre l’inganno.
Clara aveva solo nove anni, ma ancora ricorda le parole che quel giorno furono pronunciate:«Avete ragione, signora amabile! Farà pure personalmente il rosolio, ma è fastidioso che vostra cognata ve lo faccia presente ogni volta che si beve un vermuttino a casa vostra. Se non fosse troppo ardire, mi verrebbe di consigliarvi…».
«Che cosa, don Maria’?»
«L’avete mai provato il ratafià?»
«E che è?»
«Liquore di ciliegie, profumatissimo. Quello che vendo io lo produce uno stabilimento di Ancona, ma vi assicuro che sembra fatto in casa.»
«Sì?»
«Assolutamente! Una volta che l’avrete travasato in una bottiglia di cristallo di Boemia, nessuno potrà dubitare che questo elisir sia stato confezionato dalle vostre manine delicate.»
«Eh, la fate facile, voi! I parenti miei sono impicciosi… e se poi mia cognata mi chiede la ricetta»
«Se ve la chiede, potete rispondere che ve l’ha fornita un’amica, facendovi giurare sulla vita di Claretta di non darla a nessuno.»
«Non lo so… giurare sui figli è peccato.»
«Sacrosanto. Ma voi mica lo dovete fare veramente!»
«Sì, però…»
«Cosa, signora bella?»
«Suona strano. Perché questa mi avrebbe detto di tenermi la ricetta per me?»
«Perché… Perché il procedimento per fare il ratafià è un segreto che la sua famiglia si tramanda da generazioni che vi ha rivelato solo perché siete voi.»
«Un segreto di famiglia! Che bella idea! Clare’, hai capito tutto, eh, a mammà? Se ti fai scappare qualche cosa povera a te, ti faccio uscire il sangue dal naso.»
Dunque sulla coscienza di Mariano Aversa pesa l’antica colpa di aver dato a Clara il primo sentore di quanto sua madre sia portata alla menzogna. E nessuno dica che fu solo un imbroglio innocente, perché fu molto di più.
Fu il primo anello della catena di bugie che da allora la soffoca.
«Quest’anno mi ha aiutato Claretta a fare il ratafià. Povera creatura, da quando è morto il padre anziché giocare con gli altri bambini vuole stare solo con me.»
«Grazie lo stesso, signora. Diteglielo a vostra figlia che non avevo niente in contrario. Ma che ci volete fare, Claretta preferisce studiare da sola.»
«Ma quale fidanzato! Claretta mia a ‘ste cose non ci pensa. Veramente, uno che le si era messo appresso ci stava, ma a lei non piaceva. E siccome non teneva il coraggio di dirglielo, l’ho dovuto fare io.»
Le otto e cinque. Piena di speranza, Clara si precipita al Vini e liquori all’angolo, ch’è ancora aperto.
«Rataché?» le fa l’uomo dietro al banco, privandola di ogni residua illusione.
Non c’è niente da fare, per lei deve andare così: cercare di rimediare a uno sbaglio, non necessariamente suo, le costa sempre lacrime e sangue. E tutte le volte è fatica sprecata.
È una fatica sprecata, in questo disgraziato sabato sera, setacciare i bar del corso, aperti fino a tardi e forniti di tutto fuorché di ratafià. Clara si dirige verso la ferrovia, a ogni passo corrisponde un pensiero ai giorni consumati dietro alle esigenze dell’essere che le sta succhiando ciò che rimane della sua vita. “Cure parentali” le chiamano, detto così pare una nobile missione, invece è solo schifo e sfinimento, solitudine e rancore. Persino il barbone che ora le passa affianco, trascinandosi buste piene di stracci, sta sicuramente meglio di lei. Soffrirà anche la fame, ma almeno è libero di andare e venire senza dar conto a nessuno, di fare sempre e solo quello che gli dice la testa. Libero finanche di mettersi all’improvviso a dare i numeri; e infatti sentilo con che gusto smadonna e manda affanculo chiunque gli capiti a tiro! Clara accelera il passo, non sia mai che diventi lei il bersaglio di quel malcontento fluviale. Ma lui, che deve aver fiutato la sua paura, dopo averla sorpassata torna indietro e le si piazza di fronte.
Il cuore di Clara batte forte, l’istinto le dice di scappare ma sa che sarebbe un errore, proprio come è sbagliato fuggire se un cane ti abbaia contro. Così lo guarda dritto in faccia e lui ricambia lo sguardo, ma senza ostilità. Nei suoi occhi c’è dolcezza mista a comprensione; le verrebbe da dire pietà, se questo non fosse inammissibile. Poi l’uomo le parla. Pronuncia una sola parola: «Lontano». Dopodiché, con l’aria d’essersi tolto un pensiero, se ne va per i fatti suoi.
Clara cerca di calmarsi.
“Certa gente dovrebbero rinchiuderla e buttare la chiave! Chissà cos’è passato per la testa di quello squilibrato per permettersi di guardarmi come se mi conoscesse e uscirsene con quel‘Lontano’. Lontano! Come se mi stesse indicando una via d’uscita. Che avrà voluto dire? Ma tanto non vale la pena chiederselo. Proprio niente voleva dire, a quello il cervello gli è andato a male, punto e basta. Lontano. Ma guarda se doveva capitarmi pure questa, soprattutto stasera che quando scopre che mi sono dimenticata del ratafià a quella chi la sente. Speriamo almeno che quando torno dorme ancora. Lontano. E se invece non tornassi? Potrei salire su un treno, o andarmi a sedere nella sala d’attesa della stazione. Lontano. Potrei fare di uno stato transitorio il nuovo cardine attorno al quale far ruotare la mia esistenza, confondermi tra quelli che vivono per strada e fare la fila per un piatto caldo fuori all’istituto delle monache di Calcutta. Lontano. Potrei bruciare i documenti e con la cenere cospargermi la testa come ultimo segno di penitenza per aver lasciato mia madre a dannarsi e morire da sola. Non durerebbe molto, da sola non è capace di fare niente, ma in fondo la sua che vita è, e poi è vecchia, mentre io… mentre io, senza più un nome e senza più doveri, attenta solo a procurare che il mio respiro non si fermi, forse potrei…”
Clara guarda l’insegna del bar della stazione, alla ricerca di un segno del destino.
“A casa senza il ratafià io non ci torno. Entrare e chiedere, ecco cosa va fatto. E se uscirò a mani vuote vorrà dire che la vita mia può cambiare. Entrare e chiedere, ma solo per scrupolo perché è certo che uscirò a mani vuote. Stasera il ratafià è introvabile, perché dovrebbe avercelo proprio il bar della stazione? Entrare, chiedere e uscire con le mani vacanti, questo va fatto. Edopo, finalmente, sarò libera.”
Clara apre la porta. Senza accendere la luce, entra in casa. Nessun rumore. Meno male, lei dorme ancora. Va in cucina, mette la bottiglia di ratafià sul tavolo. Svuota le buste, sistema ogni cosa al suo posto e quando tutto è in ordine si siede. Come aveva fatto qualche ora prima con le chiavi, guarda la bottiglia di ratafià come se non l’avesse mai vista prima. Chissà che sapore ha, in tanti anni le fosse mai venuta una volta la voglia di assaggiarlo. Svita il tappo, annusa il liquore: odora di ciliegia. Bella scoperta, è fatto con le ciliegie. Si alza, prende un bicchiere e ci versa dentro un dito di liquore. Poi cambia idea, attacca le labbra al collo della bottiglia e dà un lungo sorso.
Ecco, chi sa che si aspettava, invece il ratafià non sa di occasioni perdute e vita sprecata, ma solo di alcool e frutta. Un po’ troppo dolciastro, ma in fondo non è poi tanto male. Ripone la bottiglia nel mobile, poi ci ripensa e la rimette sul tavolo. Per essere dolciastro è dolciastro, ma lascia in bocca un retrogusto amaro. Sì, dopotutto non è male. Più tardi, magari, ne berrà ancora un po’.
Antonella Ossorio
È autrice di testi per ragazzi pubblicati, tra gli altri, da Einaudi, Rizzoli, Giunti, Electa. Ha realizzato testi di campagne pubblicitarie e gli enigmi in versi nel n. 197 della serie a fumetti Dylan Dog. Il romanzo Se entri nel cerchio sei libero (Rizzoli), scritto con Adama Zoungrana, nel 2010 è stato inserito nel White Ravens, la lista tra i migliori libri per ragazzi pubblicati nel mondo. Ha scritto anche per gli adulti e ha pubblicato racconti in antologie e quotidiani. Il suo ultimo romanzo La cura dell’acqua salata è uscito quest’anno per Neri Pozza.