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Racconto della domenica: “Non ho più voglia di giocare” di D. M. Gradali

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Piacenza, una domenica di molti anni fa.  

Saranno state le sette del mattino, forse ancora prima, quando ho aperto gli occhi e mi sono accorto che era giorno. L’inizio del giorno, che ha quella particolare luce grigia che non svela il tempo delle ore successive.  

Mia sorella dormiva nel suo letto vicino alla porta della camera e, nella camera più grande a fianco, dormivano i nostri genitori. Puffy, la mia gatta siamese raggomitolata sul letto, si svegliò con me in quel preciso momento. Si svegliava sempre insieme al primo di noi, ne approfittava per farsi dare da mangiare senza far caso all’orario: non era mai troppo presto per fare colazione.  

Andammo insieme in bagno, Puffy per mangiare e io per fare la prima pipì del giorno, quella che dà la maggiore soddisfazione, e intanto pensavo a cosa avrei fatto quel paio d’ore che mi separavano dalla colazione. Da alcuni mesi questa era la mia strategia: andavo in sala, disponevo su un grande tavolo ricoperto di pietra chiara i soldatini, li distribuivo con cura e poi giocavo alla guerra, per una mezz’ora o tre quarti d’ora al massimo. Poi mi dedicavo al puzzle, sempre lo stesso, per un’altra mezz’ora, e temporeggiavo sperando che mia madre si alzasse e mi chiedesse se volevo il tè o il latte.  

Mentre indugiavo ancora di fronte al water mi chiedevo se non fosse stato meglio tornare sotto la coperta di lana colorata e cercare di dormire ancora un po’, però sapevo che non sarei riuscito a riprendere sonno e probabilmente mi sarei annoiato, girandomi e rigirandomi nel letto come un lombrico nella tana.  

Raggiunsi la sala e tolsi, dal mobile porta tv, due scatole di soldatini Atlantic scala 1:100, le appoggiai sul tavolo in pietra e ne rovesciai il contenuto. Caddero fuori una cinquantina di miniature di due verdi appena differenti: gli inglesi di un color verde pino deciso e gli americani verde salvia scuro. Nella realtà, inglesi e americani erano stati alleati nella Seconda guerra mondiale, ma io non lo sapevo e non mi interessava neanche, li facevo combattere, tutte le domeniche, come in una guerra a puntate, inutile e infinita.  

Nell’esercito dei piccoli soldati inglesi c’erano quattro radiofonisti inginocchiati accanto al loro ingombrante apparecchio, avevano la cornetta accostata all’orecchio. Non capendo che fosse una radio militare, li tenevo ai margini, non riuscivo a utilizzarli, non capendo che cavolo ci facessero seduti con un telefono in mano in mezzo alla battaglia: erano i quattro soldatini più inutili in assoluto. Subito dopo, nell’ordine dei soldatini insignificanti, venivano quattro americani distesi con un disco in mano, forse erano guastatori o forse sminatori, a me sembravano quattro addormentati con un frisbee tra le dita.

Avevo anche provato a farli volare, fingendo che quel frisbee fosse un piccolo disco volante al quale aggrapparsi per compiere brevi ma veloci voli radenti sulle teste dei nemici, però, non convincendomi l’idea che alcuni potessero volare e altri no, facevano spesso compagnia ai nemici telefonisti, fuori dal campo di battaglia. A conti fatti, schieravo venti americani contro venti inglesi, non avevo carri armati e nemmeno cannoni o jeep, avevo solo soldati che finivano per scontrarsi come guerrieri dell’antichità, senza esplodere nessun colpo ma duellando in un corpo a corpo con mitra e fucili come fossero lance e spade. Spesso, tra i tanti, ne eleggevo uno a caso a eroe e lui, seppur ferito e stanco, risolveva la battaglia.  

Quella mattina mi ritrovai a osservarli da molto vicino, tanto vicino da coglierne i lineamenti storpiati dalla frettolosa fusione della plastica negli stampini e mi accorsi, per la prima volta, che erano davvero grossolani, imprecisi, che non avevano lineamenti ben definiti ma solo pieghe abbozzate quel tanto da sembrare nasi e bocche, zigomi e menti. Poi c’erano parecchie membrane sottili di plastica in eccesso, che correvano intorno al loro piccolo corpo rendendolo ancora più inverosimile; mi sorpresi, constatando che non mi ero mai accorto di tutto ciò: ma com’era stato possibile? Come avevo fatto a percepire quelle pieghe sui volti come lineamenti verosimili e credibili? Perché non li avevo mai osservati con attenzione?  

Da quella mattina non sarei più riuscito a immaginarli come fossero veri. Era un peccato che avessi notato quant’erano brutti: pian piano riconoscevo le sbavature dei loro profili anche da lontano; anzi, non vedevo che quelle, da quanto ero rimasto male. E se persino loro altro non erano che l’immaginazione sgraziata di un adulto costruttore di giocattoli, cos’erano le favole? E santa Lucia, che in groppa a un asinello mi portava bellissimi doni, chi era? Sarebbe stato davvero bello diventare fornaio o benzinaio o pompiere? Era forse tutto un immenso inganno. 

 Che brutti siete! Così approssimativi e imperfetti, con quel piedistallo ingombrante che non vi consente di muovere le gambe, pensate se nella realtà i soldati dovessero combattere zavorrati di una grande zolla di terra attaccata ai piedi: non avrebbe senso. Infatti, voi non avete senso! 

 E così, all’improvviso, mi ritrovai a contemplare un esercito di soldatini inutili, mentre la luce del giorno ancora non si infiammava, e mi chiesi che cosa avrei fatto nel tempo che mi separava dalla colazione, ora che non avevo più niente con cui giocare. Sì è vero, potevo completare il solito puzzle, che ormai conoscevo a memoria, ma avevo perso l’entusiasmo: ero in piedi da venti minuti e già mi annoiavo. Sentivo passare i secondi uno a uno finché, sommandosi, non si trasformavano in un lungo minuto vuoto: con i gomiti appoggiati alla pietra grigia screziata di rosa, fissavo senza vederli i soldatini che mi erano piaciuti tanto e che, da quel momento, non mi interessavano più.  

Se ci vuole così tanto tempo per arrivare a colazione senza giocare e divertirsi, chissà quanto sarà lunga la vita quando sarò grande e non avrò più voglia di giocare. 

Questo pensiero mi rattristò, sentivo i secondi e i minuti trascinarsi pesanti uno dopo l’altro, non potevo nemmeno immaginare quanto fosse lungo un intero giorno senza giocare, figuriamoci un anno o dieci anni. Era un tempo infinito, superiore alla vita che avevo già vissuto e che mi pareva essere stata piuttosto lunga e piena. Ripensavo ai giochi semplici ma belli, anche ai limiti e agli impedimenti che il nostro tenore familiare imponeva, ma ancora di più alle scoperte, ai viaggi strepitosi fino alla lontanissima Liguria di Rapallo e un paio di volte addirittura fino a Misano o Igea Marina, sull’Adriatico, luoghi quasi esotici per chi, come me, li vedeva la prima volta. La mia infanzia era passata lentamente ma non mi ero annoiato: tante volte avevo inventato tutto, il gioco, gli oggetti con cui giocare e le sue ambientazioni, in pratica accadeva tutto nella mia testa e niente al di fuori.  

Come avrei fatto? Desideravo tanto i soldatini, le macchinine, gli animali della savana di plastica dura, il fortino fatto di pali e torrette che immaginavo assediato dagli indiani nel West, che forse santa Lucia mi avrebbe portato. Forse.  

I soldatini, tutti e quaranta davanti a me, erano lì, pronti per farmi giocare e divertire. “Dai” sembravano dirmi, “dai, cominciamo a combattere, non stiamo più nella pelle, inizia la battaglia, noi siamo pronti, è da domenica scorsa che aspettiamo questo momento, tu che cosa stai aspettando?” 

Aspetto di sentire quella magia strana che provavo fino all’altra domenica e che ora non sento più; aspetto che nella testa si formi spontaneamente l’immagine di un terreno infuocato e fumante; aspetto di sentir esplodere le bombe e di vedere il cielo farsi rosso e grigio di fumo; aspetto una qualunque di queste emozioni ma non arrivano, mi dispiace, non succede niente. Vi guardo e non mi viene in mente niente se non che siete brutti e malfatti. Non posso più giocare con voi, non mi diverto più, mi annoio. Vorrei tornare a letto, addormentarmi e svegliarmi tra cent’anni, già vecchio, passare un secolo in un secondo senza nemmeno accorgermene, perché è così che succede di notte e io non sopporto di annoiarmi!  

Questo pensai quella mattina. Ora, a quarant’anni, mi sorprendo della mia ingenuità di bambino ma, ancor di più, di non essere cambiato affatto. 

L’autore

Diego Maria Gradali è nato a Piacenza nel 1968, diplomato a Parma come maestro d’arte, ha studiato Psicologia a Padova. Nel 1992 ha intrapreso la professione di pubblicitario. Dal 1999 lavora nella propria agenzia di comunicazione. Dal 2005 si è dedicato alla scrittura, e più tardi ha ripreso a dipingere, dopo oltre vent’anni, partecipando a diverse mostre e manifestazioni, in cui si è posizionato tra i finalisti.  

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