Mi sentivo decisamente meglio.
Ero ancora nella mia stanza, stavo terminando di mettere nel borsone tutte le mie cose. Di lì a poco il dottor Stevanin sarebbe venuto a salutarmi e a farmi firmare le scartoffie necessarie per le mie dimissioni. Ci saremmo anche scambiati gli auguri di Natale.
Era l’antivigilia e i tre mesi che avevo trascorso in quella clinica non erano stati poi così terribili. Avevo guarito il mio esaurimento nervoso, pareva. Era giunto il tempo di andarsene.
«Starà benone, signor Argentieri», disse con tono cortese il dottor Stevanin, entrando nella mia stanza.
«Mi chiami Federico, dottore… abbiamo passato insieme così tanto tempo qui dentro», risposi sorridendogli, mentre chiudevo la zip del borsone.
«D’accordo signor Argentieri, anzi Federico, mi raccomando però… si riposi e torni qui subito dopo le feste per una visita di controllo. Se la prenda con molta calma, niente lavoro per almeno un paio di mesi, okay?»
Il dottor Stevanin mi piaceva.
«Promesso. Mi creda, sono consapevole di quanto mi è accaduto. E soprattutto di come sia accaduto. Devo sempre ricordarle che sono stato io a farmi ricoverare spontaneamente nella sua clinica?»
Lui sorrise. «E a me non piace doverle sempre ricordare come una delle ultime cose che ha fatto là fuori sia stata quella di inveire contro un personaggio di uno dei suoi libri mentre era seduto al ristorante.»
«Bè… sì… mi sono un po’ lasciato prendere la mano. Ma fa parte del mio modo di scrivere, i miei personaggi devono sempre sembrarmi reali.»
«Questa volta, Federico, lei ha superato il limite tra realtà e fantasia. Comunque, ora ha elaborato questo fatto e la lascio andare con serenità.»
«Ha ragione!» – affermai annuendo – «L’ho oltrepassato, ma solo per un momento. Avevo lavorato troppo. Adesso sto bene, davvero. Non succederà più».
Il dottor Stevanin mi fece strada verso l’uscita.
«Si ricordi, Federico, della percentuale che mi spetta qualora nei suoi libri dovesse utilizzare qualcuna delle mie idee… altrimenti dovrò farle causa!», disse facendomi l’occhiolino.
Mi fece ridere.
«Caro dottore, se solo sapesse… Gira e rigira dietro ad ogni dentista, impiegato, fattorino o avvocato si nasconde uno scrittore con una riserva illimitata di fervide idee!»
«Lei ha un grande talento, Federico. Ma non oltrepassi la linea di confine, d’accordo?», concluse il dottor Stevanin, congedandomi.
Era fatta. Appena fuori dalla clinica incrociai Valeria, l’infermiera che si era occupata di me durante la degenza.
«Signor Argentieri» – mi disse, con un leggero rossore che affiorava sulle sue guance – «da quando è arrivato non ho mai avuto il coraggio di chiederle una cosa. Me lo fa un autografo?».
Teneva tra le mani, porgendomelo, una copia de Il piacere di uccidere, il mio ultimo romanzo, che stava ancora vendendo bene, nonostante fosse trascorso più di un anno dalla sua uscita.
«Un libro meraviglioso e avvincente, signor Argentieri, l’ho letto due volte. Ormai conosco a memoria i nomi di tutti i personaggi! E poi il protagonista, lo spietato assassino Johnny il Biondo, è formidabile, nella sua malvagità letteraria, s’intende. Mi sembra quasi di conoscerlo!», continuò Valeria con entusiasmo.
Prima che avessi il tempo di chiedergliela, mi diede anche una penna.
Le sorrisi, presi il libro e glielo restituii firmato e con una dedica.
«Io l’ho incontrato Johnny il Biondo. Credimi, Valeria, non te lo consiglio!»
Lei trasalì. «Mi dispiace, signor Argentieri, non volevo…» Poi si rasserenò. «Ahhh… lei mi prende sempre in giro! Buon Natale e abbia cura di lei, io aspetterò con ansia il suo prossimo romanzo!”
Durante il percorso in taxi verso casa, pensai alla storia che avevo in mente. Mi tormentava da settimane, chiedendo di essere scritta. I particolari stavano prendendo forma e i pezzi del puzzle si stavano incastrando alla perfezione, pronti per essere messi su carta. No… no… l’avevo promesso al dottor Stevanin: niente lavoro, per il momento tutto doveva rimanere lì, nella mia testa.
Stavo rientrando nel mio appartamento, finalmente. Dafne se n’era presa cura durante la mia assenza. Ormai stavamo insieme da quasi cinque anni. Le piante nel giardino d’inverno erano fiorite. Il frigorifero era pieno. Dafne aveva anche tirato giù dal soppalco l’albero di Natale, l’aveva posizionato in un angolo del salotto e l’aveva addobbato con palle colorate e festoni d’argento. Un post-it appuntato sul pc mi avvisava che sarebbe arrivata alle otto, portando la cena. Era stupendo essere a casa: tutto era di nuovo al suo posto.
Avrei avuto mille cose da fare, ma potevo e dovevo aspettare. Prima una doccia, poi un sonnellino sul divano. Per la prima volta, dopo tanto tempo, ero io a condurre la mia vita. Quel periodo oscuro era finito, grazie alle premurose cure del dottor Stevanin. Non c’era bisogno di rivangarlo, mai più.
«È fantastico averti di nuovo qui! Come stai?»
«Sto davvero bene, Dafne, grazie. Credimi, non mi avrebbero dimesso se non fosse così.»
«Com’è stato? Orribile?»
«Mah… diciamo questo: avrei potuto divertirmi di più. Tu dovresti saperlo, Dafne, mi sei sempre stata vicina, sei stata l’unica a venire, e la tua presenza mi ha dato molta forza mentre ero in clinica.»
Gli occhi di Dafne si spalancarono. «Questo perché tu mi hai fatto promettere di non dire a nessuno dov’eri! Un sacco di gente mi ha chiesto di te! Sempre e costantemente. Comunque l’importante è che sei tornato, e ne sono felice. Quando potrai rimetterti al lavoro?»
«Non dovrei affrettare i tempi, ma a dire il vero mi sento già pronto. Il prossimo libro si sta scrivendo nella mia testa. Il medico ha detto di aspettare, ma in tutta franchezza non ho mai creduto che questa faccenda fosse tanto seria: stavo semplicemente lavorando troppo, il mio cervello era sotto pressione. In futuro starò più attento. Vedi, Dafne, il mio modo di scrivere…»
«È proprio questo il punto! Il tuo modo di scrivere!» – mi interruppe lei – «Lo vivi troppo intensamente, Federico. A volte mi fai rabbrividire».
Nei giorni che seguirono ripresi in mano la mia vita. Con Dafne le cose andavano meravigliosamente e la magia del Natale sembrava averci unito ancora di più. Passate le festività, andai a fare le visite di controllo nella clinica del dottor Stevanin, che confermarono come ormai fossi in gran forma.
Alla fine, non potei più rimandare l’inizio della stesura del nuovo libro: eravamo entrambi pronti. Feci provviste di snack e caffè, mi chiusi nello studio.
Scrivevo velocemente. Dopo circa una settimana mi sentivo come avvolto da un bozzolo familiare. Sapevo che all’esterno esisteva un mondo, ero conscio del telefono che squillava e della presenza di Dafne, ma l’unica cosa che contava era la tastiera del pc e le frasi che si manifestavano sullo schermo.
Il giorno lasciava il posto alla notte e poi di nuovo al giorno. Le pagine si accumulavano. Solo questo mi rendeva felice.
«Sei sicuro che non sia troppo presto? Hai ricominciato a scrivere con i tuoi ritmi folli. Sono un po’ preoccupata per te…», mi disse Dafne, in una fredda serata di fine gennaio, mentre eravamo seduti a tavola davanti agli avanzi di una cena cinese consegnata a domicilio.
«Va tutto bene e io mi sento magnificamente.»
Ed era vero. Ricordo come un capitolo cruciale giunse al termine in una notte così tarda che persino le luci dei lampioni sembravano stanche. Mi sentivo forte, esaltato, immortale.
Non so esattamente quanto tempo trascorse.
Una mattina, dopo aver bevuto la mia solita tazza di caffè, mi diressi verso il bagno.
Nel corridoio, in una pozza di sangue, giaceva Dafne, senza vita.
Gridai, disperato.
Fui pervaso dal terrore.
Chi poteva aver fatto una cosa simile? La finestra del corridoio, quella che dava sul terrazzo, era spalancata e il vetro ridotto in frantumi. Qualcuno era entrato in casa e l’aveva uccisa, mentre io, disgraziato, ero chiuso nello studio, isolato dal mondo, a scrivere!
Era tutta colpa mia!
Chiamai la polizia e nel giro di pochi minuti gli agenti giunsero in casa. Mi fecero un sacco di domande. Effettuarono meticolosi rilevamenti scientifici.
Da quel giorno non sono più riuscito dormire.
Forse, però, ho capito chi può aver ucciso Dafne. Dovrò dirlo ai giudici, anche se non penso mi crederanno.
Il processo è vicino.
Naturalmente ho paura. Ma ho anche un libro da terminare. Sono quasi alla fine, all’epilogo.
E intanto scrivo.
Ma non sono solo.
Devo sempre tenere d’occhio il mio compagno di cella, Johnny il Biondo, che tiene d’occhio me.