Legati dall’amore, ma allontanatisi nel corso degli anni, entrambi vivono il corpo e la vita stessa secondo credi incompatibili.
Nel terzo capitolo del libro (che proponiamo ai nostri lettori nella traduzione di Mario Mancini), Pandora ed Edison si incontreranno di nuovo, dopo una lunga separazione, all’aeroporto. E subito si scontreranno in un sottile corpo a corpo. Perché il loro è un tragico oscillare tra amore e repulsione, ballerino come l’ago della bilancia.
***
«Non riconosci tuo fratello?»
Voltarmi verso una voce familiare, fu come essere scagliata da una porta girevole contro un muro. Lo sguardo di benvenuto che mi ero preparata si rattrappì sul mio volto. I muscoli della bocca s’irrigidirono e iniziarono a contrarsi.
«… Edison?» Fissai lo sguardo nel faccione rotondo, i suoi lineamenti si distesero come su un palloncino. Cercando i suoi occhi neri incappucciati nel volto, pensavo di non riuscire a riconoscerlo. I lunghi capelli era lisci e spessi. Il ghigno era però inconfondibile – reso sulfureo dal tabacco e venato di un pizzico di melanconia mista all’antica arguzia. «Scusa ma non ti avevo visto.»
«È duro da credere.» In qualche posto sotto tutto quel grasso c’era ancora il senso dell’umorismo di mio fratello. «Non mi abbracci.»
«Ma sì.» Le mie mani si incontrarono non so dove sulle sue spalle rotonde, una forma molle e calda, ma estranea. Questa volta, abbracciandomi, non mi sollevò da terra come faceva di solito. Quando ci staccammo incontrai il suo sguardo, il mio mento si sollevò leggermente. Edison era sempre stato sempre più alto di me, ma ora no. Non era naturale guardare mio fratello dall’alto.
«Non hai bisogno della sedia a rotelle, allora?»
«Nooo, è stato lo zelo della compagnia aerea. Non cammino più veloce come una volta.»Edison – la creatura che aveva inghiottito Edison – ansimava verso il nastro trasportatore dei bagagli. «Pensavo che non mi avessi visto.»
«Sono più di quattro anni. Pensavo mi ci volesse un minuto. Per favore lascia fare a me.» Mi permise di prendere in spalla la sua malridotta borsa marrone. L’ultima volta che ero andata in giro con mio fratello a New York avevo dovuto inseguirlo mentre procedeva con la sua andatura goffa e accucciata, con il rischio di rimanere indietro in una città estranea con lui che si infilava agilmente tra i pedoni senza urtare le sigarette accese. Adesso, camminando verso l’uscita dell’aeroporto, avevo dovuto procedere a passetti corti come una sposa lungo la navata verso l’altare.
«Com’è andato il volo?» domanda stupida, ma la mia mente frullava. Edison mi aveva suscitato una serie di emozioni durante gli anni: stupore, ammirazione, frustrazione (e lui le ha lasciate sempre aperte). Ma non mi sono mai sentita dispiaciuta per mio fratello e la pietà mi risultava orribile.
«L’aereo è riuscito a decollare – grugnì – anche con me a bordo. È questo quello che intendi?»
«Non intendevo nulla.»
«Allora non dire nulla.»
Restai lì senza dire niente. Stavo già facendo un percorso, tutto in salita, per imparare un nuovo tipo di galateo a me totalmente estraneo. Edison avrebbe anche potuto fare del sarcasmo su se stesso e, se mi si fosse presentato davanti con un aspetto anche solo vagamente simile al fratello che ricordavo, quasi certamente avrebbe preso per il culo anche me ma, quando in un aeroporto ti si para davanti un fratello che pesa una cinquantina di chili in più dell’ultima volta che l’hai visto, tu non dici proprio nulla.
Alla fine raggiungemmo l’uscita. Mi offrii di portare la macchina sul posto pur avendo parcheggiato qualche centinaio di metri avanti. Una signora di mezza età con un buon taglio dei capelli, che gironzolava intorno all’ufficio informazioni, mi confermò che eravamo osservati.
«Scusi il disturbo» disse l’estranea. «Non è per caso Pandora Halfdanarson?»
Per molti, una ragazza giovane insieme a un fratello più grande che viene avvicinata per un autografo o, per qualsiasi altra cosa, prova un senso di gratificazione. Però non oggi, pur di andarmene quasi negai di essere quella persona. Ma d’altra parte, spiegare a Edison il motivo della menzogna sarebbe stato complicato, così dissi: «Sì».
«Lo pensavo» disse la donna. «L’ho riconosciuta dal profilo su Vanity Fair. Bene, devo dirle che mio marito mi ha regalato una bambola Baby Monotonous per il nostro anniversario. Non so se si ricorda – di certo no, ne avrà visti tante –, indossa un abito rigido, un cappellino altero e in mano un telecomando cucito. Dice cose come queste: “George, sai che devi diminuire il sale! E, George, sai che non sopporto quella camicia! E, George, lo sai che non ne capisco di politicadel Medio Oriente”! O talvolta si pavoneggia: “Sono andata a Bryn Maaaaaaaawr!”. Quasi mi sono offesa, ma poi mi sono messa a ridere. Non pensavo di essere così indulgente e controllata. Quella bambola ha salvato il mio matrimonio. Così la volevo ringraziare.»
Non fraintendetemi, generalmente sono molto gentile con i clienti soddisfatti. Non mi piace essere riconosciuta in pubblico come piacerebbe invece a molti – compreso Edison –, perché non amo indulgere nell’affettazione. Ciò che mi sconcerta di questi incontri è l’imbarazzo che mi viene dall’essere riconosciuta senza riconoscere ea mia volta, che non è giusto. Così, di solito sono calorosa, loquace e riconoscente, ma non oggi. Spensi l’entusiasmo dicendo: «Bene, sono felice per lei», e mi diressi verso le strisce pedonali.
«È vero che sei la figlia di Travis Appaloosa?!» gridò la donna dietro le mie spalle.
Seccata, per via del giornalista di Vanity Fair che lo aveva scoperto senza che lo avessi dichiarato, non risposi alla domanda. Edison esplose dietro di me: «Non faccia casino, signora. Travis Appaloosa è il padre di Pandora Halfdanarson. Che si becchi questa stronzata!».
Per fortuna, quando ripassai in macchina dal marciapiede se ne era andata. Mettendo la valigia nella bauliera, dissi: «Mi spiace per quella donna. Onestamente capita di rado».
«È il costo del successo, cara» disse Edison con voce rauca.
Ci volle un po’ di tempo per spingere il sedile anteriore della nostra Toyota Camry fino all’ultima tacca. Salendo dentro, Edison appoggiò una mano sulla portiera: ho pensato che le cerniere sopportassero il peso, l’avrei aiutato volentieri, ma avevo paura che inclinandosi verso me saremmo entrambi finiti per terra. Si calò nel sedile con la delicatezza di una gigantesca gru che sposta un container da una nave. Quando entrarono gli ultimi pochi centimetri, il telaio della vettura si piegò verso destra. Le ginocchia erano incastrate nel bauletto portaoggetti e dovettidare una botta di fianco per chiudere la portiera. I fianchi robusti servivano pure a qualcosa. Ho avuto qualche problema a spingere il freno a mano, contro cui pressava una coscia di Edison; sulla leva del cambio cadeva il suo avambraccio, così da renderla di difficile azionamento. Non sapevo se chiamare Fletcher [il marito] per avvertirlo, anche se anticipare che il cognato sbarcato all’aeroporto era tre volte tanto la dimensione del cognato che aveva ospitato l’ultima volta mi pareva inutile. Come uscii dal parcheggio, squillò il telefono e riconobbi la chiamata. Dopo l’incontro sul marciapiede con la donna appassionata di Baby Monotonous era l’ultima cosa che desideravo e così non risposi.
Edison rovistò nelle tasche della sua giacca di pelle nera – un modello ultimo moda con le mostrine che aveva richiesto una mezza mucca per essere confezionata. Aveva rimpiazzato un cappotto di pelle lungo che aveva portato per anni, con una cintura liscia come la buccia di una melanzana; lo indossava sempre con il colletto rialzato. Gli dava un aspetto così favoloso, così misteriosamente mafioso ed elegante. Mi domandavo che fine aveva fatto l’originale, perché, oltre alla nostalgia, sapere che cosa era successo ai vestiti più piccoli poteva essere una chiave per capire come Edison immaginava il proprio futuro. Questa giacca più larga e smisurata aveva l’aspetto della plastica informe e non lo stile ricercato del suo vecchio guardaroba. Non avevo nessuna idea di dove trovasse quei vestiti, non avevo mai visto taglie simili da Kohl’s o perfino da Target.
Tirò fuori quella che sembrava una grossa ciambella con una glassa bianca, come rappresa sulla carta da forno. Non gli dissi: “Sai, mi sembra l’ultima cosa di cui hai bisogno”. Non gli dissi: “Sai, ho letto che quella ciambella tocca le 900 calorie a pezzo”. Non gli dissi: “Sai, ceneremo tra una mezzoretta”. Tutto quello che non gli ho detto avrebbe potuto riempire l’intero solco registrato di una delle mie bambole parlanti.
Invece, anche la frase più innocente suonò piena di tensione. Dissi allora: «Che cosa stai facendo?». Come se non fosse ovvio.
«Qualche cd», disse masticando la glassa. «Soprattutto concerti a New York, qui la scena si è spostata a Brooklyn. Sono agganciato al chitarrista Charlie Hunter, che sta veramente sfondando. Altri emergenti come John Hebert, John O’Gallagher, Ben Monder, Bill McHenry. Tutti lanciati in un evento con Michael Brecker lo scorso anno al 55 Bar, ed è un dannato peccato che sia morto di leucemia. Avremmo fatto il tutto esaurito a Birdland. È un atto normale al Nyack Restaurant che è una noia, anche se con così tanti locali che chiudono dobbiamo per forza prendere quello che capita. Il Main Jazz Camp per il pane, ma, che ci credi o no, tuo fratello ha allevato dei promettenti allievi. Naturalmente sto lavorando sui miei pezzi. In arrivo a dicembre c’è un lungo tour in Spagna e Portogallo. Forse il prossimo autunno il London Jazz Festival. Qualche interesse dal Brasile, non ancora concretizzato. Il denaro non è abbastanza. Cat ci sta lavorando a Rio.»
Ero abituata al catalogo di nomi che non mi dicevano niente. Occhi sulla strada, potevo sentire mio fratello come l’avevo sempre ascoltato: sfacciato, lucido, sicuro di sé, a prescindere dalle delusioni del presente – qualcosa di redditizio e d’importante era proprio dietro l’angolo. Pensavo intanto che non si capiva al telefono che era così ingrassato.
«Parli a Travis dopo?»
Travis Appalosa suonava falso – e lo era. “Papà”, nato Hugh Halfdanarson, aveva preso il pomposo nome d’arte quando io avevo sei anni ed Edison nove, troppo tardi per non sembrarci posticcio. Così lo chiamavamo sempre Travis, con un implicito colpo di gomito nelle costole, come a dire “Beccati questo”. Eppure durante l’infanzia e l’adolescenza Travis ci aveva allietati con la musicale familiarità di Bill Bixby, Danny Bonaduce e Barbara Billingsley. Forse la sequenza di sillabe che risuona ogni mercoledì alle nove per tutta la nazione può non sembrare così ridicola. Dal 1974 al 1982, Travis Appaloosa era parte del paesaggio, proprio come aveva sempre sperato Hugh Halfdanarson [il vero nome del padre].
«Un mese fa – dissi – era ossessionato dal suo sito web. L’hai visto? C’era un quiz triviale su Joint Custody [serie tv dove Travis era protagonista». Un “Dove sono adesso? Tieniti aggiornato su qualsiasi sostanza Tiffany Kite si sta sparando”.»
«In genere Travis non è tra i quei nomi della televisione che ti sono entrati in testa nella fanciullezza» dissi.
«Saresti sorpresa. Tu non usi il suo cognome. Ma mi viene chiesto di lui più spesso di quanto tu pensi.»
In effetti avevo usato qualche volta al college il nome di Pandora Appalosa. Ingenuamente pensavo che, se gli altri sapevano chi ero, avrei fatto meglio conoscenza. Ma ben presto la domanda che mi sarebbe stata rivolta – “Qualche parentela hai con Travis?” – cominciò ad apparirmi ingannevole e controproducente. Le mie compagne di classe al Reed avrebbero voluto parlare unicamente di mio padre, la star televisiva, in termini attuali. Mi sarei ridotta a un collegamento ipertestuale a qualcun altro su una pagina di Wikipedia. Così tornai al nome di Halfdanarson quando mi trasferii nell’Iowa.
In anni recenti neppure gli appassionati della tv di una volta sanno riconoscere lo pseudonimo di mio padre, il cui attuale disuso lo riconsegnava alla stoltezza che aveva fatto scoppiare a ridere mia madre. Ma io ero felice di essere tornata alla sgraziata cantilena svedese che mio padre aveva sostituito, perché Halfdanarson era il mio vero nome. Spesso mi ero divertita alle canzonature del nostro cognome di mio padre e di Edison, quel rituale contatto con la nostra stupida e inusuale storia.
Parlavo di rado con Fletcher della mia fanciullezza. All’inizio della mia relazione con lui, non accennai nemmeno al fatto che mio padre era stato un attore televisivo in un programma popolarissimo fino a quando fui sicura che non aveva visto Joint Custody quando era in prima programmazione. Eppure, per quanto fermamente avessi rimarcato che la mia educazione anticonformista a Tujunga Hills, fosse un episodio poco significativo in una vita altrimenti ordinaria per destino, Fletcher l’ha vista come una crescita di rango e io non ho fatto più cenno all’argomento. Solo con Edison posso ritornare a un passato che, per quanto restia a ricorrervi, sono riluttante a buttare completamente alle ortiche.
In ogni caso era il mio passato. Il solo che avevo. Sono cresciuta con una serie di parallelismi che esprimevano vari gradi di distorsione e di caricatura della realtà. Non solo avevo un padre di nome Hugh Halfdanarson, che lo aveva ridicolmente cambiato in Travis Appaloosam e che interpretava un altro padre di nome Enroy Field, un padre posticcio che era molto meglio del papà vero, monomaniaco ed egocentrico, che occasionalmente vedevo a casa. Non ero soltanto Pandora Halfdanarson, ma potevo scegliere di essere, se volevo, Pandora Appaloosa e per otto anno ogni mercoledì sera mi potevo identificare in una versione idealizzata di me stessa, MapleFields [figlia del protagonista di Joint Custody], una ragazzina più dolce e generosa di me che cercava sempre di rimettere insieme i genitori. A sua volta, Maple Fields era interpretata da una di quelle rare attrici bambine che non sono antipatiche sia sullo schermo che nella vita, anche se Floy Newport non era neppure il suo vero nome. La adoravo e qualche volta pensavo che avrebbero dovuto continuare a produrre lo show e cancellare la famiglia vera. Potete così vedere che la mia tendenza a modellare dei doppi di vita era pressoché inevitabile. Dopo tutto, l’episodio di Night Gallery che mi piaceva di più era The Doll.
Questa volta tornando a New Holland, il nostro tradizionale scambio di commenti – in primo luogo sulle stravaganti strategie che Travis aveva elaborato per tornare all’attenzione del pubblico – sembrava diversivo e disonesto. Mentre continuavamo a parlare delle ultime su JoyMarkle e Tiffany Kite, potevo continuare la conversazione solo tenendo fissi gli occhi sulla I-80. Buttare uno sguardo alla massa informe che era sul sedile del passeggero avrebbe rotto l’incantesimo, e sarebbe stato ingiusto per Edison in quelle condizioni essere deriso per aver mancato le aspettative della gioventù. Perché il lancinante dolore di vedere il grande gentiluomo in una sedia a rotelle dell’aeroporto si era soltanto acuito, e non avevo alcuna idea di come venire a capo dell’intera serata senza andare in pezzi.
Lionel Shriver
È nata nel 1957 a Gaatonia nel North Carolina in una famiglia presbiteriana ortodossa, molto religiosa. Ha studiato al Barnard College della Columbia University e, dopo aver vissuto in vari Paesi, ora abita a Londra. Sposata con il batterista jazz Jeff Williams, è giornalista per grandi testate (The Guardian, The New York Times, The Wall Street Journal) e scrittrice di grande successo. I suoi romanzi sono stati tradotti in venticinque lingue. Tra questi, Dobbiamo parlare di Kevin (Piemme, 2006) ha vinto l’Orange Prize e ha venduto oltre un milione di copie nel mondo; Effetti sconvolgenti di un compleanno (Piemme, 2009) è stato nella lista dei best seller del New York Times. Con Tutta un’altra vita (Piemme, 2011) è stata finalista all’edizione 2010 del National Book Award, il più prestigioso premio letterario americano.
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